Lo trovarono in un bagno di una stazione di servizio a San Concordio, Lucca, mentre cercava di iniettarsi una dose di eroina. Schizzi di sangue dappertutto, il volto pallido.
“Malfermo sulle gambe e balbettando- come annotarono nel rapporto informativo i poliziotti- lo sconosciuto dichiarò di chiamarsi Baker Chensey Henry, suddito americano, residente a Viareggio, cornettista in un complesso che si esibisce alla Bussola”.
Conosciuto ai più come Chet Baker. Uno dei più grandi jazzisti mondiali, l’unico, diranno, “che poteva competere con i neri”.
“Erano gli anni- ricorderà Claudio Sessa- in cui la presenza di un jazzista americano in Italia faceva subito notizia (di “costume”, certo); figurarsi se il jazzista Chet Baker, mito della tromba e cantante da batticuore”.
Lo sapeva il brigadiere mentre lo portava in Questura che si trattava di un famoso musicista ma sapeva, più che altro, i suoi precedenti sempre per uso e dipendenza di droga.
Inizia così il libro di Domenico Manzione “Il Mio amico Chet”, edito da Maria Pacini Fazzi che sarà presentato sabato, alle 18, nell’atrio del Comune, nel corso di Barga Jazz. Sottotitolo: “storia un po’ vera un po’ no del processo a Chet Baker”. Manzione, infatti, con una scrittura semplice e avvolgente, ripercorre le vicende giudiziarie che portarono il musicista a scontare 16 mesi nel carcere di San Giorgio affiancandola alla storia verosimile e coinvolgente di un giovane appassionato di musica e grande fan di Chet di cui diverrà, in un modo del tutto particolare, suo amico.
Nato e cresciuto a Yale (Oklahoma), Baker era figlio di contadini emigrati in città. Il padre appassionato di musica, buon suonatore di chitarra gli aveva regalato, appena tredicenne, prima un trombone (troppo grosso per lui che era di gracile costituzione) e poi una tromba. E gli aveva trasmesso la passione per Bix Beiderbecke, il ragazzo di Chicago bruciato verde dall’alcool e dalle droghe. A lui si ispirerà Chet che, scelto inizialmente da Charlie Parker per suonare nella sua band in una serie di concerti nella West Coast, si unì, poi, al Gerry Mulligan Quartet, dopo il declino del quale fondò una sua jazz band dove iniziò anche a cantare con quel suo stile rarefatto e crepuscolare e quel suo modo inquieto di suonare nella tromba. Ne suonò due in particolare, per tutta la vita: una Martin committee e una Conn connstellation.
Alla fine degli anni 50 iniziò a soggiornare molto di più in Europa: nel vecchio continente le leggi contro i consumatori di droghe pesanti erano meno severe. “Faccia d’angelo, cuore di demonio” dirà un giudice di uno dei processi a cui fu sottoposto; e, in effetti, dietro il volto angelico c’era l’inferno, il suo inferno che lo portava giorno dopo giorno ad autodistruggersi.
Il suo consumo, infatti, iniziò a divenire una dipendenza. Suonava dovunque e di tutto per pagarsi la “roba”. “Chet Baker, genio e sregolatezza.- ricorderà Vittorio Franchini- Sempre alle prese con la schiavitù della droga, sempre alle prese con la legge, col carcere, con gli spacciatori che gli hanno anche spaccato la bocca. Eppure ugualmente candido, poeticamente sbalordito da tutto ciò che gli accadeva intorno”.
Una leggenda, già in vita, come accade in pochi casi. Nel 1966 sparì dalle scene a causa di gravi problemi ai denti anteriori, che dovette farsi estrarre perché non riusciva più a suonare a causa del dolore che gli provocavano.
Negli Stati Uniti alcuni spacciatori non pagati lo avevano picchiato a sangue e gli avevano rotto i denti, si diceva. Anche se lui diceva di essere finito in una rissa dopo un concerto e di essere stato aggredito da alcuni uomini di colore che gli avevano spaccato una bottiglia in faccia, lacerandogli le labbra e danneggiandogli i denti anteriori. Una bugia, chi gli stava vicino lo sapeva: i denti glieli avevano spaccati gli spacciatori per il mancato pagamento di una fornitura anche se che l’uso dell’eroina avesse già lasciato il segno sulla sua dentatura.
Dopo qualche tempo, Dizzy Gillespie lo riconobbe nel commesso di una pompa di benzina. Uno dei più grandi musicisti del mondo era finito a fare il benzinaio in un polveroso distribuito sperso in un anonima provincia dell’ovest americano. Gillespie lo aiutò a rimettersi in sesto, facendogli anche trovare i soldi per sistemarsi la bocca, applicandovi una dentiera. Baker dovette imparare a suonare la tromba con la dentiera, cosa considerata estremamente difficile, e il suo stile dovette adeguarsi ma, miracolosamente, ricupera il suo magico suono: sul palcoscenico non resta traccia dei terribili guai appena trascorsi. Quando nel 1979 tornò in Italia nessuno lo riconobbe: il bel giovane degli anni Cinquanta e Sessanta si era trasformato “in un anziano magro da far paura, con le gambe malferme e il viso pieno di rughe minute”. Alcuni dei vecchi amici lo riconobbero solo quando iniziò a suonare. Quando diede fiato alla tromba iniziando a portare gli spettatori in un non luogo della memoria bè, solo in quel momento lo riconobbero, non c’era dubbio: era Chet.
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“Anche lui- come dice ancora Franchini- forse, aveva fatto un patto col diavolo in qualche crocicchio della assolata California ed un bel giorno il diavolo è tornato a riprenderselo”.
Se lo riprese in una fredda mattina di primavera quando volò da una finestra di un albergo di Amsterdam. Lo trovarono, le ossa spezza e il corpo è deturpato da ecchimosi e da sangue rappreso. Suicidio fu il responso, anche se molti avanzeranno dubbi. “Chet- dirà Nicola Stilo famoso flautista e suo collaboratore- soffriva ormai di terribili allucinazioni. Deve aver visto qualcosa, che ovviamente non c’era, oltre la finestra, e ha proteso la testa e il busto per “vedere” meglio, fino a cadere di sotto. Non aveva alcuna intenzione di uccidersi, io e altri lo sappiamo”. Forse era così, forse no, chissà di certo c’è solo quello che è scritto nella lapide commemorativa posta nel luogo dove fu trovato morto: “Egli vivrà nella sua musica per tutti quelli che vorranno ascoltarla e capirla”.
La notizia, come ricorda nel suo romanzo Manzione, arrivò anche nella piccola città di Lucca. In pochi si ricordarono di Faccia d’Angelo che dalla sua cella verso sera suonava quella sua musica così strana.
“E mentre lui suonava- scrive Manzione- quel luogo di derelitti e diseredati si trasformava in un silenzioso panopticon che affidava a quelle note che si involavano libere nell’aria tutto il proprio dolore e la proprie speranze”.
Quando lo rinchiusero al San Giorgio, infatti, aveva portato con se la tromba. “A po’ tené a tromba marescià? O regolamento mica la prevede….” chiese l’appuntato. “Non lo prevede ma nemmeno lo vieta” rispose il maresciallo e così Chet poté portare con se il suo strumento, la sua prosecuzione. La iniziò a suonare tutte le sere, prima di leggere, alla luce di una lampadina da cinque watt le lettere che gli spediva Carol, la sua compagna.
La sua musica era come un grido che si alzava prima lento per poi attraversare le grate e spandersi acuto e disperato nell’aria per poi tornare quasi un soffio interrotto a cadenze ritmate, come un pianto, dirà qualcuno tra la piccola folla che ormai tutte le sere si creava sulle mura proprio di fronte alla cella del musicista. Una coppia rimaneva lontano dal gruppo, “quasi triste”; intanto, il giorno moriva. Le torri della città brillavano degli ultimi raggi di sole mentre il tramonto inondava le mura. “Almost blue” , come diceva una sua canzone.