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The piazza is named after Salvo Salvi who just by coincidence on this very day, the 20th September in 1890 made an impassioned speech which is published in full below.
Nell’anno 1890, era ancora viva nell’opinione pubblica la questione della presa di Roma del 1870 che aveva decretato la fine del potere temporale della Chiesa, vi erano continue polemiche in cui si fronteggiavano le flangie Clericali e Anticlericali.
Il discorso che Salvo Salvi fece in occasione della festa che faceva memoria di tale avvenimento ( XX Settembre ), è la sintesi del pensiero che pervase la mente delle persone che aderirono al moto risorgimentale: il potere temporale del Papa è l’ultima fortezza medievale e la presa di Roma la abbatte definitivamente, creando una nazione unita e libera.
DISCORSO DEL XX SETTEMBRE – 1890 – Salvo Salvi
Questa solennità che il popolo d’Italia, insieme all’Augusto suo Capo celebra esultante, ricordando il compimento dell’unità nazionale, riassume e compendia le memorie tutte del nostro risorgimento.
Il sangue versato sui campi di battaglia e sparso sui patiboli, Garibaldi colla sua epopea, Mazzini col suo apostolato, Cavour col suo senno, Vittorio Emanuele colla sua lealtà, insomma tutto il complesso di dolori, di abnegazione, di grandezze che hanno preparato il riscatto nazionale, hanno la loro sintesi in questa data.
XX Settembre, ha tal giorno per il cumulo di tanti ricordi, la nota del sentimento patriottico vibra spontanea e la nazione, al di sopra dei suoi bisogni e dei suoi sacrifici, vede elevarsi forte e serena l’immagine della patria unita, che con Roma capitale ha avuto il suo coronamento.
Questa festa può dunque ben dirsi la festa d’Italia, la gran festa nazionale, ed è opera patriottica quella del comitato alla cui lodevole iniziativa si deve questa commemorazione, come è sempre opera utile e di civile educazione il ricordare alle generazioni che sorgono, i sacrifici esecrati in pro della patria, le ansie che precedettero la costituzione del Regno, e di qual mole fu l’opera del riscatto nazionale.
Fra gli avvenimenti del moto unitario italiano, il più fortemente e lungamente agognato, il più grande e al tempo stesso il più arduo fu quello della rivendicazione di Roma.
La campagna dell’indipendenza Italiana, cominciata da Carlo Alberto che dette la libertà ai suoi stati, continuata eroicamente da Vittorio Emanuele colla virtù del popolo tutto insorto contro gli stranieri e contro le oppressioni nostrane e da Garibaldi che, esempio ammirabile di patriottismo, di abnegazione, non abbassò mai la sua bandiera “ Italia e Vittorio Emanuele”, aveva già riunite le sparse membra d’Italia in un’unica famiglia.
Solo rimaneva Roma, come un isola nel continente italiano, come una fortezza, sulla quale si chiudevano e si organizzavano, tutti gli avanzi delle idee medioevali disposta a resistere alla corrente nuova.
Ma di mano in mano che il popolo Italiano, malgrado tutto e tutti, vincendo ostacoli che da prima erano parsi insormontabili, andava ricomponendosi e spezzando a una a una le catene che lo avevano tenuto per tanto tempo avvinto, acquistava sempre più distinta la coscienza del suo diritto, la fiducia nel suo destini, e sempre più intenso ed acuto si faceva in lui il desiderio di rivendicare la sua storica capitale.
Roma che fu il teatro ove si sono svolte le più grandi fasi della civiltà, ove l’umanità ha lasciato splendide tracce della sua storia e del suo genio, delle sue lotte, delle sue aspirazioni, Roma che compendia ed illustra la passata grandezza d’Italia, ha sempre esercitato un fascino, un’attrazione magica, sopra ogni uomo superiore, sopra ogni popolo grande.
Era dunque ben naturale e legittimo l’entusiasmo del popolo Italiano rigenerato per avere Roma, la madre della civiltà Italiana, come capitale del Regno rinnovellato.
Se questo desiderio era ardente e fermo, era anche unanime.
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Tutti i partiti del nuovo regno costituito ne formavano la base essenziale del loro programma politico, e se non tutti convenivano nei modi per conseguirlo, tutti erano però concordi nel proposito di portare nel Campidoglio la bandiera nazionale uscita trionfante dei campi di Palestro e di Solferino e di Marsala, del Vorturno, di Castelfidardo.
Re Vittorio Emanuele irremovibile nella fede giurata, costante nell’opera cui aveva consacrato la sua vita ne affermava ad ogni occasione il diritto e il proposito come quando il suo governo propose ed egli sanzionò la legge votata dal parlamento che proclamo a Capitale d’Italia Roma sebbene tuttora papale.
Gli uomini che sedevano al governo, preoccupati delle conseguenza che al giovane regno sarebbero potute derivare da piani troppo arditi, andavano tentando le occasioni preparando il terreno colla convenzione del settembre 1864 ottennero l’allontanamento dei francesi, trasportando la capitale a Firenze come una tappa sulla marcia d’Italia verso Roma.
Garibaldi, il capitano del popolo, nel quale era così profondo ed intenso l’intuito del diritto e dell’avvenire d’Italia, intollerante di ogni indugio, sprezzante di ogni ostacolo, non vedendo che Roma avanti a se, teneva viva la più focosa e costante agitazione al grido di “ Roma o morte”.
Fu aspra lotta che più volte mise a dura e terribile prova la compagine non ancor cementata della giovane Italia.
Ma quando più infuriava la procella, quando più le passioni parevano prossime a scatenarsi e a venire a cozzo fra loro, quel sentimento di concordia che fu la forza del nostro moto unitario tornava tosto a prevalere, e ristabilita d’un tratto la calma, dissipate le nubi, la stella d’Italia tornava a brillare più fulgida e serena di prima.
Sanguina ancora il cuore al ricordo dei dolorosi episodi che accompagnarono quella lotta, come quando ad Aspromonte il piombo italiano dové fermare lo slancio dell’eroe popolare, come quando a Mentana cadde appresso ma non vinto dalle soverchianti armi francesi, tornate in fretta a Roma, il fiore dei patrioti italiani.
Ma quel sangue versato, quell’eroico sacrificio, fu alta sfida, sanguinosa protesta, disperata affermazione di un diritto che non poteva essere più a lungo compresso.
Ma chi contrastava all’Italia la sua storica capitale, chi impediva ai Romani colle mani macchiate dal sangue di Monti e Tognetti, il diritto di essere italiani.
Una sovranità cui mancava ogni diritto, ogni ragione di essere, e che altro non era che l’avanzo di una grande teocrazia, la quale aveva ormai fatto il suo tempo.
Il fondatore della religione cristiana, rianimando il sentimento religioso, volle preposta alla religione universale da esso istituita un’autorità spirituale, universale anch’essa ma ben distinta e separata dall’autorità temporale.
In progresso di tempo avvenuto la divisione, poi lo sfasciamento dell’impero e con esso disorganizzati e disciolti i governi laici, unica autorità che parve rimanesse in piedi fu l’autorità spirituale della Chiesa.
La quale violando la natura sua è indotta da qualche speciali circostanze storiche ha dimenticare le parole del suo fondatore, subentrò nel porto che la disorganizzazione dei governi laici aveva lasciato vuoto ed acquistò una sovranità eminente in tutti gli stati e un dominio temporale.
Ma poco a poco gli stati andavano ricostituendosi sul principio della razionalità e riorganizzatisi i poteri laici, cessò la causa che aveva dato in mano alla Chiesa il potere temporale e così cessò anche la legittimità di quel fatto e prevalse il principio di diritto naturale, base della costituzione degli stati attuali, cioè che la sovranità del territorio appartiene al popolo che in esso abita, il che nel caso val quanto dire che Roma era come non può legittimamente essere di altri che del popolo italiano.
Del dominio universale che la Chiesa aveva raggiunto nell’epoca sua, pur gloriosa, sotto il pontificato del Papa Ildebrando, e che nel medioevo si era andato sviluppando ed allargando, demolito e scosso a poco a poco dal crescere della nuova civiltà, più non rimanevano che la memorie dell’antica potenza non sopravvivevano che le forme ed una stato microscopico dominato ora da questa ora da quella potenza, con governo , con istituzioni vuote ed irrigidite, retto da leggi dure ed inumane ed impotente a fare il bene dei sudditi e a mantenere Roma all’altezza del suo nome, delle sue memorie.
Mentre con il possesso di Roma non aggiungeva ormai più né vigore né prestigio all’autorità spirituale del Papa, si faceva sempre più evidente il diritto dei Romani a dispor di se stessi e a riunirsi al resto d’Italia.
Ma la monarchia Francese, per i fini di quella politica personale che le scavò la tomba, non volendo troppo urtare i sentimenti dei conservatori e dei legittimisti, e dall’altro volendo dare una garanzia a quelli che prevedevano con occhio geloso il possibile emanciparsi della giovane Italia, si opponeva minacciosa e proclamava che giammai l’Italia sarebbe andata a Roma.
Caduto Napoleone e fatto prigioniero a Sedan, il governo italiano, secondando i voti del parlamento e del popolo, vide giunto il momento di sciogliere la questione romana.
Tentò da prima le vie pacifiche per ottenere da Pio IX pacifico adempimento del voto degl’Italiani, ma avendo il Papa risposto negativamente Vittorio Emanuele, sfidando impavido gli eventi, ordinò l’occupazione di Roma e il genio d’Italia passò trionfante per la Porta Pia e compì il suo voto annoso integrando la sua nazionalità sulle rovine del potere temporale.
Questo fatto fra le rivoluzioni compiute nel secolo XIX è il più importante e il più grande.
Esso non si restringe all’Italia, ma segna l’inizio di un nuovo periodo nel corso dell’umanità.
Con esso, colla una legislazione improntata alla formula “libera Chiesa in libero stato”, l’Italia abbattuto il dispotismo di ogni culto, proclama e garantisce la libertà alla Chiesa, afferma la supremazia del potere civile basata sulla sovranità popolare, e con trasformazione degna di poema e di storia, alla guerra feroce contro la libertà di coscienza sostituisce il dominio indiscutibile della libertà di coscienza, sotto l’egida della quale ripara ed agisce chi prima la combatteva aspramente, alla scienza autentica e bollata del sacro indice, sostituisce la scienza sovrana della ragione e dell’intelligenza, al sillabo che tutto fulmina il libero insegnamento che è palestra di tutte la classi e di tutte le opinioni, alla religione che massacra e tormenta, la religione che conforta e che tempra col raggio della fede le naturali e spontanee incertezze dell’anima.
Le nostre leggi affermano solo la supremazia del potere civile e la indipendenza dello stato, chi le reputa vessatorie sui ministri del culto è abbagliato da grave errore e falsa la base della religione sostituendo il principio teocratico al principio puramente religioso.
Sono venti anni che questa grande trasformazione è avvenuta, l’Italia ferma nel sostenere le ragioni dello stato ma scrupolosa nell’osservanza delle leggi e delle garanzie che ne derivano, circondata dal rispetto del mondo intero, innanzi al quale ha saputo mostrarsi degna della missione di nazione civile, può a buon diritto rilevare frustanea e inane la guerra alla sua esistenza che l’acquisto di Roma le suscitò.
Solo in conseguenza delle illusioni prodotte dal suo isolamento e dall’ambiente artificiale in cui vive il Papato aspira alla restaurazione di un passato che non può tornare ed invoca persino gli stranieri in suo aiuto, ma nessuno gli risponde meno la solitaria voce di qualche suo adepto.
Purtroppo in passato tali appelli allo straniero, che sono antico e malaugurato costume del Papato furono all’Italia causa prima della catene che ha testé spezzate, delle sventure dalle quali è risorta, ma oggi non ha più catena che avvincer possa trenta milioni di uomini liberi e gli stranieri non vengono più in Italia come oppressori, ma come ospiti ed amici, per attestare la loro amicizia e la loro simpatia verso la nazione ed il nostro Re.
E ciò non tanto per rispetto alle nostre forze, ma perché compari anch’essi di quelle medesime idee che hanno trovato tra noi fervente apostolato e coraggiosa applicazione.
Tutto è cambiato, meno il Vaticano, che resta immobile in mezzo al vorticoso movimento dei tempi nuovi e la fumosa prigionia del Pontefice non è che il simbolo del suo isolamento.
L’antica Roma prima conquistatrice di popoli , poi conquistatrice di anime, non è più città universale, non è più una grande sagrestia, una grande galleria vivacchiante dell’obolo dei viaggiatori che in essa convenivano ad ammirare le vestigie del suo passato.
Roma è città italiana e agli italiani incombe il gran compito di sovrapporre alla Roma pagana del Colosseo, alla Roma cattolica delle basiliche, nulla distruggendo ma riedificando, una terza Roma rispondente al suo gran nome antico e medioevale, alla sua nuova missione politica e sociale.
Il ventesimo anniversario che oggi si celebra, trova gli italiani sempre più fermi e concordi in quest’obbiettivo , perché fra noi i partiti scompaiono di fronte al clericalismo, che mirando come suo ultimo fine alla decapitazione della patria è nemico irriconciliabile dell’unità e della libertà.
Questi preziosi acquisti si devono all’abnegazione, all’invitta costanza e soprattutto alla concordia che Vittorio Emanuele, Garibaldi e gli altri campioni del risorgimento nazionale seppero serbare tra loro anteponendo ad ogni loro ideale, ad ogni loro ambizione il bene della patria.
Non basta avere una patria bisogna anche rendersene degni servendola con amore, con disinteresse, con abnegazione, ed ai giovani colla memoria degli entusiasmi che fecero palpitare la precedente generazione incombe di conservare la tradizione di quella sublime e fortunata concordia.
Ma i vecchi patrioti possono stare sicuri che l’opera loro rimarrà intangibile perché la nuova generazione sente e vuole anch’essa che l’Italia sia grande, forte, rispettata e sicura del suo avvenire e se venisse di nuovo per la patria nostra il bisogno di difenderla, il popolo memore dell’eroismo del grande Re Vittorio Emanuele e di Garibaldi, saprebbe fare il suo dovere e col potente fascino di quei nomi gloriosi e colla guida sicura di Casa Savoia, l’Italia saprebbe in ogni evento essere degna delle sue tradizioni.
Alla nostra Dinastia che ci dette principi pari ad ogni esigenza dei tempi e della vita nazionale, atti meglio ancora nel seguirla, a dirigerla verso l’adempimento di sempre nuovi destini, di sempre nuovi desideri, al Re prode e leale, vigile custode dell’unità e della libertà, oggi s’innalzano d’ogni parte d’Italia i più ferventi auguri, i più affettuosi saluti. – source