Francesco Cosimini, pittore
«Non ho ancora trovato una definizione di Arte. Per gli artisti è emozione e tormento esibiti attraverso la tecnica. Per i critici è interpretare e spiegare emozioni altrui senza esibire le proprie. Oggettivamente è linguaggio e documento. Non sarà certamente mai mezzo di vanto»
Francesco Cosimini, giovanissimo, ti dividi fra la città di Firenze dove studi arte e beni culturali e la Media Valle dove lavori per il giornale “Il nuovo Corriere di Lucca”. C’è una dialettica, una relazione fra questi due aspetti della tua vita professionale?
Sì, vivo a cavallo tra la Media Valle, dove sono nato, dove risiedono la mia famiglia e gli amici e che, da poco, è anche diventata teatro della mia avventura giornalistica. Firenze è il luogo dove sono cresciuto intellettualmente e umanamente. La città, la ricchezza artistica onnipresente, gli odori, le sue mille persone per le strade, le tantissime storie, mi hanno insegnato ad arrangiarmi da solo, ma soprattutto a non soffermarmi mai sul visibile, sul primo dato e di approfondire sempre. Quest’ultimo aspetto vale soprattutto per la ricerca in storia dell’arte dove non bisogna mai bloccarsi al dato estetico (soggettivo, dato che un’opera può piacere o meno), ma andare oltre l’opera e vedere ciò che l’artista ha voluto esprimere e soprattutto comunicare secondo quel concetto che ogni opera d’arte è equiparabile a un libro e quindi mai soffermarsi sulla copertina, ma aprirlo e scoprire cos’ha da raccontare.
Oltre all’arte e la scrittura sei affascinato anche dal mondo della fotografia, racconta questa tua passione.
Nonostante non sia un grande amante della tecnologia, ho scoperto la fotografia digitale come realizzazione perfetta e precisa della realtà attraverso un mezzo meccanico. Tutto è nato per la mia incapacità di rappresentare i paesaggi, a differenza di quelli umani che da sempre mi hanno affascinato. È poi diventata il tramite per rendere grande un dettaglio e farlo assurgere a elemento narrante. Certamente la fotografia è un supporto alla realizzazione della mia pittura e da quest’ultima essa trova la forza di nascere. Dico sempre che la fotografia è quell’arte legata alla fortuna.
L’iniziativa d’inserire all’interno degli ambienti del teatro opere d’arte contemporanee di giovani artisti è il tentativo di stabilire una connessione, una sinergia fra varie “arti differenti”. Credi che questo sia un cammino percorribile per il futuro nel territorio barghigiano?
Leggevo in questi giorni su “GQ” un articolo di Gianluigi Ricuperati, intitolato “Alveare della cultura”, dove viene esaminato “All. We. Are”. Brevemente tale concetto viene sintetizzato come un alveare, dove ogni cella esagonale è collegata alle altre e così ogni mente umana deve essere collegata affinché ognuna porti alla conoscenza di un’altra.
Semplicità e grande astuzia stanno alla base di questa teoria che condivido pienamente e spero diventi abitudine nel territorio barghigiano come in altri. Accostare le varie arti, coi loro svariati linguaggi, provoca un indiscusso dibattito fra artisti, critici e operatori culturali, ma soprattutto è monito di una comunità viva e che sa apprezzare il dato bello e sensibile. Basta pensare alla “Factory” di Warhol come officina di linguaggi diversi oppure ad altri momenti della storia dove arte, artigianato ed altri mezzi espressivi hanno concorso all’unificazione del linguaggio con lo scopo principale di arrivare al maggior numero d’utenti. Mi piace sempre pensare a prodotti poliedrici, poliglotti e a stretto contatto con la realtà circostante evitando di cadere nell’oblio. Sono fortemente convinto che il confronto e lo scambio di idee in maniera interdisciplinare porterà a grandi progetti futuri.
Hai dichiarato: «Questa è la prima volta che espongo un’opera che contiene un parte scritta». Trovi che questa sperimentazione sia l’inizio di una strada che percorrerai a lungo?
Io vomito sulle tele me stesso senza un senso logico né un fine. Dipingo per me. Ultimamente ho scritto qualcosa a fianco dei miei disegni, ma perché mi andava in quel preciso momento. Io credo che un artista ha l’obbligo di sperimentare sempre, ogni opera deve essere non il traguardo di una vita, ma di un momento. Seguire le proprie emozioni, il proprio istinto senza aver paura d’esser giudicato da qualcuno.
Se l’artista o il poeta si sofferma su un filone del suo operare ecco che lì trova la sua morte intellettuale. Io non sono un artista, ma un amante dei pennelli e dei colori. Ci sta che un giorno questo gioco finirà e magari non ne sentirò la mancanza. I veri artisti quando non vengono ascoltati o capiti hanno un grande senso di frustrazione, magari io lo proverò quando non riuscirò più a capire me stesso.
Raccontaci il tuo rapporto con il teatro o la tua partecipazione ad una rappresentazione teatrale che ricordi con piacere.
Il teatro non è che l’abbia frequentato molto nella mia vita. Ricordo sempre con grande piacere, anche perché fa parte del filone del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, l’opera di Beckett “Aspettando Godot”.
E bravo France!