Un progetto ambizioso quello abbracciato da Tom Hooper, premio Oscar per Il discorso del re. Portare sul grande schermo I miserabili di Victor Hugo, grande epopea di colpa e redenzione, già di per sé è una sfida; realizzare la versione cinematografica del musical Les Misérables, con centocinquantadue minuti di recitativo cantato, senza neanche un dialogo, può apparire una prova persa in partenza. Ciononostante il risultato riserva più sorprese che delusioni.
La storia è quella straconosciuta del galeotto Jean Valjean, rimasto vent’anni ai lavori forzati nella Francia di primo ’800 per aver rubato un tozzo di pane. Redento dall’incontro con un ecclesiastico, Valjean (Hugh Jackman) si crea una nuova identità come monsieur Madeline, sindaco di Montreuil sur mer, soccorre la morente Fantine (Anne Hathaway) e ne riscatta la figlia Cosette, ostaggio di due esosi locandieri (Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter). In tutto questo però Valjean deve fare i conti con l’implacabile ispettore di polizia Javert (Russel Crowe), suo secondino all’epoca della prigione, e convinto che la redenzione di un malfattore sia cosa non possibile. In fuga da Javert, Valjean e Cosette approdano a Parigi dove la ragazza ormai cresciuta (interpretata da Amanda Seyfried) si innamora di Marius (Eddie Redmayne) nei giorni del 1832 in cui gli studenti figli dell’epoca rivoluzionaria si preparano ad innalzare le barricate contro la monarchia.
La sfida del genere musicale è stata vinta a metà da Tom Hooper. Trasportare un musical dal palcoscenico allo schermo penalizza inevitabilmente il risultato, che rischia sempre di cadere nella trappola dell’eccesso e nei sentimentalismi. Nonostante alcune lungaggini e scelte sceniche a volte teatraleggianti e non sempre azzeccate, Hooper ha il merito di aver dato un’impronta allo stesso tempo oggettiva e nettamente personale. Hooper ha creato un prodotto che consegna allo stesso tempo ambizioni hollywodiane nello spiegamento dei mezzi ma di carattere squisitamente europeo nelle scelte registiche. Non si tratta semplicemente della trasposizione di un musical, ma di un vero e proprio film, cui Hooper ha conferito un registro molto fisico: i “miserabili” sono mostrati in tutta la loro presenza scenica, abbondano i primi piani, la gestualità e la corporeità sono concretizzate e portate all’estremo. A concorrere a questa interpretazione contribuiscono aspetti secondari curati con estrema bravura: i costumi, le scenografie classiche e a tratti spoglie, la ricostruzione storica. A penalizzare tutta questa cura sono purtroppo gli interpreti: si distingue sin troppo bene chi tra gli attori ha esperienza di palcoscenico e chi è prestato all’occasione (una menzione in particolare va a Russel Crowe che mantiene sempre la stessa espressione, facciale e canora, dalla prima all’ultima scena).
Una frazione netta si avverte inoltre tra la prima e la seconda parte. La prima è quella europea, dei sentimenti intimi (l’amore materno, la religiosità, la volontà di redenzione), con una messa scenica a tratti originale, a tratti convenzionale. La seconda – la parte parigina – è quella americana delle grandi scenografie, del coinvolgimento, dei colpi di scena, in cui comunque, tra un tripudiare di bandiere rosse, sembra emergere orgogliosamente un’identità non francese, bensì europeista, conscia del retaggio storico del proprio passato.