Glielo aveva detto Cesare Garboli,: “Pardini lo sa perché Dio l’ha creata? Perché racconti le bestie. Questo deve fare. Quando spariranno i muli, i lupi, gli orsi noi li conosceremo attraverso i suoi racconti. E le dico anche un’altra cosa: lei morirà scrivendo. Perché la sua sposa è la penna. Non prenda moglie, tra l’altro lei sarebbe incapace di amare.”
E lui, Vincenzo Pardini (classe 1950), ha seguito il consiglio. Nato “in un paese della Media Val di Serchio” oggi vive nella campagna lucchese, a Stabbiano e, tutti i giorni, quando il sole cade, scende all’inferno impugnando il suo revolver, perché Pardini fa il vigilantes, da 35 anni.
Il suo ultimo lavoro, “Il Postale”, racconta la fine di un’epoca (siamo a cavallo tra Otto e Novecento), di un mestiere (quello del vetturino postale) e di una Terra (la nostra Valle del Serchio).
Sabato è salito a Barga, nella Sala Consiliare di Palazzo Pancrazzi, per parlare della sua ultima fatica e di molto altro con Andrea Giannasi, nel programma del ricco calendario di eventi del Tra le righe di Barga Winter Festival apertosi con Marco Malvaldi. Con loro, a fare gli onori di casa, l’assessore alla cultura Giovanna Stefani.
Ha scritto in un suo romanzo: “Quando il tempo si ferma in un luogo non ammette intrusioni: è come l’oblio della morte: assoluto e perfetto. Non per nulla in piazza dei Miracoli si trova anche il cimitero, che della morte è il monumento”.
Il suo lavoro di guardia gli ha permesso di osservare gli uomini. “Di notte- dice- le persone si sdoppiano, appare il lato oscuro dell’umanità. La Luna ha molta influenza sui nostri comportamenti. E la notte porta a galla qualcosa di noi che non conosciamo.”
I suoi racconti, infatti, sembrano leggende tardo-gotiche e i protagonisti dei suoi romanzi emanano inquietanti infezioni e ossessioni.
Amico di Mario Tobino ed Enzo Siciliano, scrive perché non può farne a meno. I suoi libri, tra romanzi e racconti, sono ormai una ventina, alcuni sono diventati anche film come quello Jodo Cartamigli da cui si sono ispirati (liberamente) Giovanni Veronesi e Leonardo Pieraccioni per il loro “Il mio West” girato a Campocatino. Le sue ultime tre opere sono state edite dalla prestigiosa Fandango.
Ha una schiera di estimatori critici, ma non è mai riuscito a diventare popolare. Severo e testardo come i personaggi che descrive si nutre della grande tradizione toscana innovandola e scontando la sua letteratura indigena. E, forse involontariamente, ha ingaggiato una battaglia contro il potere autoritario della lingua e delle sue regole. Quasi ad ogni pagina dei suoi libri ci sono parole che non esistono sul vocabolario.
Ad esempio “spicchiorare”. Non esiste. Ma non importa.
Locco, arcile, monticolo, tafferia, becca, balzellare, sono solo alcune delle centinaia e centinaia di parole ignote, ma comunque necessarie per la rivoluzione solitaria e incompresa di questo scrittore che se deve parlarci d’un vecchio “accendisigaro d’ottone”, preferisce dirlo “vetusto”; se entra in scena un gruppo di balordi con intenti vendicativi, non esita a recuperare il dottissimo “ultori”; nel momento in cui si tratta di trasportare a soma, gli viene naturale l’impiego dell’assai desueto e quasi tecnicistico “someggiare”.
Disse, sempre, Garboli: “Pardini, scrive come si soffre, si rantola, si stupra, si graffia, si morde”.
Superstite e solitario da sempre, come nessuno, descrive gli animali con i quali ha instaurato un rapporto di amicizia strettissimo, come quello che lo ha legato, per tanto tempo, al suo mulo Giovale.
“Il mio mulo m’era legato da un’intesa misteriosa. Poteva accadere che avessimo i medesimi pensieri e propositi.”
Infatti, per Pardini gli animali rammentano a noi un fondo di sacralità della nostra origine: “Amare gli animali può far soffrire. Persiste in loro quanto noi abbiamo perduto di sacro.”