Il “Compendio della vita di San Pellegrino” scritto nel 1755 da Pellegrino Rossi, già autore nel 1736 della “Vita di San Geminiano, vescovo e protettore di Modena” è il testo più importante sulla storia del santo venerato nell’Alpe. La copia anastatica, dopo molti anni, viene ora edita in una nuove edizione- che uscirà in occasione del Salone del Libro di Torino– grazie alla Garfagnana editrice di Andrea Giannasi. Il volume è arricchito da un’introduzione di Giuseppe Giovanelli e da un saggio storico di Normanna Albertini, insegnante e scrittrice, a cui si deve la riscoperta del Maestro dei Colori Pietro Da Talada.
Il Culto di San Pellegrino non è noto solo in Toscana ma anche sul versante emiliano…
“Certamente! Anche perché proprio da San Pellegrino passava (e passa ancora) la Via Bibulca, facente parte di un itinerario molto più lungo che collegava Lucca a Canossa. Era così chiamata perché era abbastanza larga da consentire il passaggio di due buoi appaiati. Il percorso risaliva le valli del Dolo e del Dragone fino al Passo delle Radici, mettendo in comunicazione il Modenese con la Garfagnana. Come le moderne autostrade, era a pagamento; il pedaggio che si doveva sborsare per percorrerla non doveva essere di poco conto, a giudicare dall’impegno col quale gli abati di Frassinoro, si prodigarono per conservare il loro privilegio di riscossione.
La devozione a San Pellegrino e San Bianco era diffusa fino al bolognese e nel versante toscano (Lucca, Pistoia); il crinale era dunque occasione d’incontro e non di separazione tra le vallate sottostanti, e il santuario patrimonio comune da condividere. Oggi, da varie parrocchie della provincia di Reggio Emilia, ancora partono a piedi i pellegrini verso San Pellegrino in Alpe; una di queste è la parrocchia di Montalto di Vezzano, la cui chiesa è dedicata al santo”.
Questo legame si nota anche in un detto…
“Sì, il detto bolognese “Aeser cm’è San Bianc e San Pellgren”, cioè sempre insieme, anche dopo la morte. Si racconta poi che, quand’era ancora in vita, San Pellegrino si cibasse solo di lupini, del quale cibo peraltro parrebbe che non fosse troppo contento, se è vero quest’altro detto toscano “Fare come San Pellegrino, il quale si lamentava di mangiare lupini, e un giorno, voltandosi indietro, vide San Bianco che raccoglieva i gusci”.
Nel suo saggio introduttivo fa una giusta puntualizzazione: “Quando ci si imbatte in antiche leggende e agiografie di santi, com’è quella di san Pellegrino in Alpe, bisogna innanzitutto ricordare che questi scritti non si preoccupavano di rappresentare la realtà, ma che avevano una funzione pedagogica”…
“Questi scritti narravano, attestavano quel che si doveva sapere o credere attraverso un insieme di immagini dimostrative. Praticamente, correggevano la realtà per trarne quel che serviva a infondere un ammaestramento morale. È un tipo di produzione letteraria non concreta, come del resto non era realistica la pittura, che raffigurava esclusivamente dei simboli, aderendo a formule convenute. Le vite dei santi e le raccolte dei loro miracoli miravano sempre a farli corrispondere a dei modelli e, infine, alla figura stessa di Cristo. Quindi, le agiografie si somigliano tutte e i miracoli che vengono attribuiti ai santi sembrano direttamente tratti dai vangeli, com’è della resurrezione dei morti, praticata almeno due volte da san Pellegrino”.
Stando così le cose è molto difficile immaginare quale sia stata veramente la vita di queste persone; reagendo a queste concezioni extrastoriche della santità, alla fine dell’Ottocento nacque in Francia la corrente critica che fece capo a Pierre Saintyves (pseudonimo di Émile Nourry), editore parigino, precursore degli studi folclorici in Francia, studioso della religione popolare nei rapporti con la storia del cristianesimo e noto editore dei modernisti Loisy, Houtin e altri. Cosa sostenevano?
“Questa corrente cominciò a descrivere i santi come successori degli dei pagani (dei boschi, delle sorgenti, delle alture ecc…). Sicuramente (lo si nota anche nel culto di san Pellegrino), i santi vanno ad un certo punto a sostituire i culti di molte divinità antecedenti, ma questo non basta a spiegare il posto che la grande devozione popolare a loro manifestata ha avuto nella religione medioevale. Si finisce inoltre per trascurare l’evoluzione delle relazioni tra uomo e natura che, con il cattolicesimo, portò a ribaltarne i ruoli, arrivando a “sottomettere” il modo naturale (prima dominante e paurosamente incontrollabile) all’uomo”.
Come si spiega invece la devozione del popolo?
“Se il santo dell’Antichità era un fedele della vita passiva, alla ricerca della perfezione attraverso la rinuncia al mondo, il santo dell’alto Medioevo diventa il sostegno dei deboli nella lotta contro ogni sopraffazione e mancato rispetto della dignità umana. In assenza di “servizi sociali”, il santo, la chiesa a lui dedicata, la comunità tutt’intorno diventavano una risorsa per i diseredati e per le vittime dell’ingiustizia. Eppure, non dobbiamo vedere il santo come un oppositore del potere temporale, tutt’altro. Il santo è quasi sempre di famiglia nobile, un aristocratico, spesso un figlio di re o un re (san Pellegrino è un figlio di re…). Tutto ciò in base alla credenza che si era affermata, e che aveva radice nel convincimento proprio del cristianesimo tardo-antico e del paganesimo germanico, che la compiutezza morale e spirituale poteva difficilmente nascere ed evolversi al di fuori della condizione aristocratica”.
Anche Pellegrino, quindi, era un figlio di nobili?
“Si tratta di una leggenda secondo cui Pellegrino era figlio di Re. Nato da Romano, re di Scozia, e della moglie Plantola, intorno al 600 d. C nel lontano Nord, in un’isola, la Scotia Maior (cioè l’Irlanda) che era rimasta immune dalla conquista e dalla colonizzazione romana”.
Ma è veramente il “nostro” Pellegrino? Perché in realtà, di santi che portano il nome “Pellegrino” ne sono documentati almeno undici tra la Biblioteca Hagiografica Latina e il Novum Supplementum?
“Il “nostro” viene definito “Peregrinus erem. Prope Mutinam” (BHL 6630)”. Il nome venne portato da numerosi santi, almeno dodici (undici uomini e una donna) venerati in Italia. Probabilmente più che un nome era un aggettivo che indicava, di quel personaggio, la caratteristica dell’essere in viaggio per motivi religiosi. Dal nome medievale Pellegrino, di chiara matrice religiosa – in riferimento ai pellegrinaggi in luoghi di culto, soprattutto a Roma o in Terra Santa. Etimologicamente, il termine pellegrino trae origine dal latino peregrinus, che, tratto dall’avverbio peregre (per, “fuori”, e ager, “agro”, “territorio”, “paese”), assume il significato di “straniero”, “forestiero” (letteralmente “che proviene o viaggia al di fuori del paese”). Al pari dei nomi Palmiro e Romeo, il nome Pellegrino si diffuse particolarmente in epoca medievale, per influsso della cultura cristiana. A proposito delle sue varianti, va detto che la forma Pellegro nasce dall’errata convinzione che il suffisso -ino rappresenti un diminutivo, come avviene di regola nella lingua italiana”.
Cosa rimane di storico su di lui?
“Nulla di veramente storico resta di lui, ciò nondimeno tante sono le leggende che, negli anni, sono andate sommandosi per convergere poi in un’unica narrazione tradizionale, la cui prima testimonianza scritta si trova nel codice membranaceo 1061 conservato presso la Biblioteca Governativa di Lucca; il manoscritto è intitolato “Liber choralis pro officio et missa sancti Peregrini”.