Roberto è nato a Lucca nel 1955 da una famiglia di agricoltori. Dopo le scuole elementari e medie ha frequentato il liceo artistico a Lucca e dopo questo l’Accademia di Belle Arti a Firenze dove è avvenuta la sua maturazione artistica, veicolata dall’incontro con altri artisti (Scuola di Sant’Alessio).
Prima del diploma, preso nel 1980, Roberto Pasquinelli già esponeva a Lucca presso la Galleria Nazionale in Via Veneto.
L’inizio pittorico di Pasquinelli ha visto l’impegno verso la rappresentazione di nature morte. In seguito la sua arte si è indirizzata verso il paesaggio anche se continuava a percorrere la pittura ritrattistica che peraltro aveva praticato fin da bambino.
La scoperta dei colori solari è legata sempre ad una sua emozione personale che ha dentro il desiderio di comunicare all’animo altrui l’amore e la gioia che egli prova nell’immergersi nel cromatismo della natura che lo circonda.
Pittura solare, quella di Pasquinelli: luce, chiarità, limpidezza, felicità espressiva.
Il Chiarismo lombardo, minimo movimento che ebbe però notevole importanza nel rinnovamento della pittura figurativa italiana, anche se la critica spesso se ne dimentica, è della prima metà del Novecento. Persico, critico illustre, sottolineò a quel tempo l’accostamento al postimpressionismo. Ma forse si trattò piuttosto di un particolare espressionismo mediterraneo, diverso da quello di Scipione e della Scuola Romana.
Finora non è stata facile la vita per gli artisti limpidi, semplici, genuini, non irreggimentati, non soggetti a disciplina di partito.
Quando si farà un’onesta revisione critica del Novecento, dovremo tenerne conto. Dovremo “scoprire” i valori completamente obliati, dare giusta collocazione agli “accantonati”, ridimensionare i sopravvalutati della politica dispotica. Il Novecento è stato un defilé di ismi, un moltiplicarsi sfrenato di ricerche. Poche le scoperte. Si cercava soprattutto l’originalità ad ogni costo.
Ma di originale ormai c’è ben poco. Tutto è già stato fatto o tentato.
L’originalità vera consiste, ancora e sempre, nell’angolazione da cui ciascun artista guarda e vede il soggetto-oggetto dell’arte; consiste nel suo sentire, nel suo vivere e soffrire i mali del proprio tempo, nel godere e sognare i beni supremi, nel capire i grandi perché della vita. Il resto sono giuochi intellettualistici, che raramente riescono a essere piacevoli.
Pasquinelli è un ritrattista, che ama ritrarre anche il paesaggio. Lo studia a fondo, prima di proporlo sulla tela. Fa, per il paesaggio, quello che i pittori antichi facevano per il ritratto di persone. Le frequentavano, le studiavano attentamente, volevano vederle in tutti gli atteggiamenti possibili. Ecco perché, quando vediamo un ritratto eseguito da Velàzquez, da Raffaello, da Rembrandt, da Tiziano, oltre ad ammirare la maestria del segno, capiamo la psicologia del personaggio.
Conosco Pasquinelli da anni, l’ho visto lavorare. È ancora un artista en plain air. Studia il paesaggio, lo sente, lo vive, vi s’immerge. Fa quel che fa il commissario Maigret di Simenon, quando dice di immergersi nelle atmosfere torbide nelle quali è maturato il delitto; le respira, lascia che gli scivolino addosso, lascia che il suo pesante pastrano col bavero di velluto s’imbeva di questi sentori. E Pasquinelli dalle atmosfere filtra, col suo tocco leggero, la poesia, in aloni di luce, di chiarità solare, di incantevole rimescolio di memorie.
Il suo mondo è di sconcertante e sognante semplicità. È il piccolo borgo medioevale di Montecarlo, arroccato sul colle del Cerruglio, che domina la Val di Nievole. Dalla Fortezza di Montecarlo, il favoloso e discusso personaggio di Castruccio Castracani degli Antelminelli guidò il suo esercito alla vittoria nella battaglia di Altopascio del 1325. Sono il padule di Bientina e di Fucecchio, la piana lucchese, il mare di Viareggio, gli scogli di Castiglioncello.
È un lavoratore solitario, carboncino, pennelli e colori, che sogna a occhi aperti, ma soprattutto pensa, medita, riflette.
Il verbo che cerca di far suo è “capire”. È stato in giro per l’Italia e per l’Europa, ma sempre è tornato inequivocabilmente a Montecarlo. Il teatro di Montecarlo è dei Rassicurati e lui è rassicurato quando passeggia per il borgo, per le vie in saliscendi, quando passa sotto gli archi antichi, dai quali si affaccia la pianura scintillante nel sole.
È felice, in mezzo alle celebri vigne del vin bianco più gaudioso di Toscana.
La civiltà contadina è l’ultima che ci resta, dopo il collasso dell’industrializzazione, della globalizzazione, della crisi dei valori etici.
Raffaello Bertoli – source