Il 4 novembre 1918 un ragazzino saliva i tornanti della vecchia strada carrozzabile che da Loppia saliva a Barga. Portava nelle mani un palo di legno con sopra una tavola inchiodata. C’era scritto: “Vittoria!”. La stessa parola che urlava a squarciagola, senza sosta. La gente usciva dalle case, accorreva a sentire. E il ragazzo iniziava a raccontare: la guerra era finita. La notizia era arrivata giù allo stabilimento della Società Metallurgica in cui lavorava. I soldati sarebbero tornati a casa. Nessuno più sarebbe partito per il fronte. A quell’annuncio fu una festa. E a quel ragazzo, messaggero di quell’inaspettata novella, fu dato da mangiare e da bere. Quel ragazzo era Bruno Sereni. Nessuno quel giorno poteva immaginarsi il suo rutilante avvenire. Eppure se qualcuno si fosse fermato a guardarlo negli occhi già vi avrebbe visto quel futuro. Ma quel giorno nessuno lo fece. Tutti gli occhi si fermarono su quella scritta: “Vittoria!”.
In quella parola c’erano i quattro interminabili anni appena trascorsi. Tutte le aspirazioni, tutti i problemi, tutti i dolori. Oggi è difficile parlare di quella vittoria. Si rischia di passare da guerrafondai, da fascisti. E così, proprio per la paura di trattare questo argomento, si è cercato di evitarlo, di trincerarsi dietro sonore denunce contro la guerra e inni alla pace. Intendiamoci, nessuno è qui a fare l’apologia della violenza e della guerra. Anzi. Però crediamo che il racconto di quegli anni tragici debba essere fatto senza infingimenti, senza ipocrisie. Non guardando quella storia con gli occhi di oggi, ma con gli occhi di ieri.
Avremo ricordato giustamente quei ragazzi solo quando racconteremo veramente la loro storia. Senza usarli a nostro piacimento. Come usano fare, spesso, i nostri politici. I quali devono mantenere gli equilibri del politicamente corretto anche quando parlano di storia. Per evitare il problema, in questi quattro anni, hanno lasciato ai privati il compito di organizzare eventi in ricordo di questa immane tragedia che ha colpito ma ha anche costruito la nostra Patria (parola, anche questa, che fa rabbrividire i nostri amministratori, anche quando, magari, la portano nel cuore). Così, i nostri politici non hanno fatto niente (o poco) nonostante che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano avesse fortemente voluto eventi in ricordo della guerra e si sono vergognati a parlare di vittoria nonostante l’odierno presidente Sergio Mattarella abbia definito, nel suo discorso di fine anno, il 2018 come anno de centenario della Vittoria.
Stesso strano rapporto lo hanno avuto i professori che dovrebbero insegnare ai nostri figli la Storia. Anche se, come ha ricordato giustamente Umberto Sereni in un recente discorso in occasione del restauro della statua di Francesco Burlamacchi a Lucca, l’intenzione del Ministero dell’Istruzione è quella di diminuire notevolmente le ore di questa materia nei programmi scolastici. Quindi poche ore in cui dare una visione della storia a interpretazione. A questo va aggiunto un lampante disamore per il proprio passato, per le proprie radici. Siamo affetti da “presentismo”, come il professor Mario Isnenghi, il massimo esperto vivente della Grande Guerra, sostiene da anni. Quindi, c’è solo il nostro presente. E se dobbiamo guardare al passato lo dobbiamo fare con i nostri occhi di oggi. E così non capiamo la Storia.
Isnenghi, dal canto suo, lo dice da anni: “Stiamo attenti: nella Grande Guerra ci fu l’assurdità della carneficina ma ci fu anche chi in quella guerra vedeva un senso. La storiografia serve a capire ciò che pensavano i contemporanei e come vivevano il loro presente, non a sovrapporre al loro il nostro. Oggi la lettura prevalente della prima guerra mondiale è quella di un evento assurdo. Credo che il senso dell’assurdo maturi in realtà dalla crisi della storia. La cosiddetta «fine della storia» proclamata da Francis Fukuyama trascina con sé anche l’intenzione di non riconoscere alcuna legittimità ai modi di pensare del passato. Siccome non siamo più capaci di produrre grandi narrazioni, neghiamo anche ai nostri predecessori di averne avute. Questo per me è inaccettabile”.
A sentirli parlare, certi professori sembrano particolarmente affetti da questa strane sindrome. Questi insegnanti potranno mai raccontare la storia di Leo Giuliani? Pensiamo di no. La sua storia è emblematica di tante sfaccettature del caleidoscopio che fu la Grande Guerra. Figlio di emigrati, tornò in Italia per compiere gli studi universitari a Pisa. Fu ardente interventista, grazie a lui a Barga si stampò Il Volere d’Italia, “organo quindicinale dei nazionalisti toscani”. Alla visita militare a Livorno, però, non fu fatto idoneo: due centimetri sotto l’altezza prevista! E allora si fece raccomandare per farsi arruolare. In un’Italia che, ora come allora, tendeva all’imboscamento in suoi larghi strati, Giuliani andò controcorrente. Partì per il fronte. Combatté, morì.
Le sue missive furono raccolte nel volume Lettere di un Eroe. Sono pagine che, tolta una certa retorica dell’epoca, colpiscono per la loro visione lucida, dimostrandoci quale gigante dell’animo fosse Giuliani. C’è la smania di passare dall’idea all’azione (“le parole mi sono diventate odiose, non agogno che i fatti”), c’è la critica di chi decantava l’intervento e poi faceva combattere gli altri, ma c’è soprattutto una visione molto più articolata. Sperava si ravvivasse “la coscienza nazionale”, consapevole che “dopo la vittoria del nemico, si dovrà raggiungere la vittoria morale”. Quindi, un programma ampio, complesso.
Un’idea li muoveva. Compiere l’unità d’Italia. Spazzare via il mondo vecchio. E poi, quella guerra, sarebbe stata l’ultima. Questi pensieri animavano i tanti emigranti che tornarono a combattere vestendo il grigioverde. Tra questi c’era pure il primo oriundo della Nazionale di calcio italiano: Giovanni “Johnny” Moscardini, ferito gravemente nella battaglia di Caporetto. Ferito come migliaia, milioni di altri soldati.
Furono tanti i feriti e ancor più i morti. 650 mila. Un numero enorme. Una scia di sangue interminabile. Non c’è famiglia italiana che, in un modo o nell’altro, non sia stata colpita. Lo ha dimostrato il trasversale interesse per la bella mostra inaugurata il 20 ottobre alla Fondazione Ricci, resa possibile grazie a quella vera signora della cultura che è Cristiana Ricci. In tanti, sapendo dell’organizzazione dell’evento, hanno deciso di donare o prestare qualcosa dei loro cari: divise, lettere, diari, cartoline, foto. Ne è venuto fuori un racconto commovente. E la gente lo ha capito. La mostra doveva durare una settimana, ma è stata prolungata sino al 4 novembre.
All’interno dell’esposizione c’erano anche le foto dei monumenti che si trovano in ogni paese del nostro comune e d’Italia, non a caso l’associazione Italia Nostra ha espresso il desiderio di censire i circa dodicimila monumenti o epigrafi che disseminano il territorio nazionale in un’unica banca dati. Da noi, di inventare i monumenti del nostro comune si è occupato Ivano Stefani che, con la stessa passione, ha raccontato la “Grande Guerra” del comune di Fosciandora (nel volume edito da Effigi nella collana della Banca dell’Identità e della Memoria). Basta il dato di questa piccola comunità montana: 25 ragazzi morti al fronte, 150 i chiamati alle armi, su una popolazione di mille e quattrocento abitanti.
Un altro lavoro preziosissimo lo ha fatto Pier Giuliano Cecchi che ha censito i caduti barghigiani: 172. “La ricerca- ci ha spiegato Pier Giuliano- è iniziata studiando i nomi raccolti nella lapide della Cappella dei Caduti del Cimitero di Barga, e confrontandoli con l’Albo Nazionale dei Caduti in Guerra, oltre alle lapidi delle frazioni e ai censiti presso l’ex Ufficio Leva del Comune”. Insomma, un lavoro enorme. Un lavoro portato avanti, come quello di Stefani, da un singolo privato mosso dal suo senso civico.
Tra quelle 172 vite, spazzate via nel fiore dei loro anni, c’è quella di Vincenzo Zerboglio, figlio del senatore Adolfo (barghigiano di adozione). Classe 1898, sottotenente degli alpini, morì a pochi giorni dalla fine della guerra. Durante la battaglia sul monte Solarolo, fu colpito prima a una spalla, poi a una gamba. Un colpo in testa, infine, lo fece cadere al suolo privo di vita. Venti anni. L’inizio di una vita. Eppure, anche Vincenzo quella guerra l’aveva voluta, fortemente. È difficile da capire e da immaginare, con la mente di oggi, ma così è stato. Lo aveva detto, lo aveva scritto nelle sue lettere.
Non a caso, Ettore Cozzani, nell’introduzione a Lettere di un Eroe, scriveva: “Quando la storia di questo nostro periodo di prova, bisognerà chiedere il senso dell’impresa soprattutto ai Morti in guerra, interrogando amorosamente i loro epistolari”. Questo doveva essere l’obbiettivo che doveva guidarci nell’affrontare queste celebrazioni. Leggere, rileggere, capire. Vi avremmo trovato il senso di quelle scelte, di quell’entusiasmo per la guerra, altrimenti incomprensibile. Certo, ci fu chi disse no a “l’inutile strage” (e furono molti: cattolici, socialisti, anarchici), anche qui a Barga, come dimostrano gli intensi articoli de La Gazzetta di Barga e le graffianti xilografie di Adolfo Balduini, ma ancora di più furono coloro che la guerra la subirono come una tassa, come una condanna, come la grandine. Un evento ineluttabile. Chi tornò integrò lasciò qualcosa di sé in quel fango e tra quel filo spinato.
Ma la guerra non la vissero solo i soldati ma anche i civili. Le donne, in particolare. Nel comune di Barga molte trovarono occupazione nella Società Metallurgica Italiana. L’impresa del gruppo Orlando si era insediata da poco in Valle e aveva subito trasformato radicalmente Fornaci di Barga. Un paese, la sua fabbrica. Questa storia è stata raccolta in una mostra del 2016 a cura del locale Istituto Storico Lucchese e ora viene riproposta in un ricco catalogo fotografico edito da Cento Lumi che sarà presentato stasera alla biblioteca degli Incartati, proprio a Fornaci.
E alla Metallurgica è legata una delle pagine più belle di quello che fu la guerra. Proprio nel giorno dell’armistizio e della Vittoria, dopo il bollettino del generale Armando Diaz, mentre Bruno Sereni iniziava a salire i tornanti che portavano al castello di Barga, Luigi Orlando annunciò la costruzione di un asilo per gli orfani della guerra. Ricordare e onorare i morti non solo con i monumenti ma aiutando i vivi.
Poche settimane e L’Arrengo, il periodico che veniva distribuito all’interno dello stabilimento, usciva con un numero dedicato alla costruzione, mostrando i disegni del progetto. Altri mesi e iniziava l’inizio della costruzione di quello che sarà poi l’asilo “Giovanni Pascoli”. Quella struttura oggi è ancora lì, non è più un asilo, ma rimane un simbolo concreto, commovente di quella tragedia e della lungimiranza di Luigi Orlando. Un messaggio di vita. Un simbolo della nostra storia. Una storia che resta.