CANTI DI CASTELVECCHIO
Giovanni Pascoli
 
51. Il nido di "farlotti"

Tra gli autunnali giorni ricorre
al mio pensiero sempre quel giorno,
che dal palazzo, dalla gran Torre,
facemmo un tanto mesto ritorno:
ritorno tanto mesto, sebbene
fosse alla bianca nostra casina
che aveva ai piedi tante verbene
e su pei muri tanta cedrina;
dov'era, dietro siepi riquadre
di biancospino, dietro un cancello
verde, ciò ch'era della mia madre,
nostro, ma poco; poco, ma bello.
Io non credeva, fuori che in sogno,
fossero altrove gigli e giaggioli,
e il dolce odore del catalogno
e gli agri pomi de' lazzeruoli:
e ch'altro al mondo fosse che il troppo,
dopo le canne fitte dell'orto
e la mimosa, ch'è morta, e il pioppo,
ch'è morto, e l'alto cedro, ch'è morto.
Oh! sì, com'era mesto il ritorno,
e sì, la sera com'era mesta,
ben ch'in San Mauro fosse, quel giorno,
un'argentina romba di festa!
Ma morto il babbo da più d'un mese,
non c'era posto per i suoi nati
più, nella Torre, sì che al paese
ritornavamo come scacciati.
Noi s'era in otto, nove con essa,
nella carrozza, piccoli, stretti
a lei che stava bianca e dimessa
tra lo scoppiare dei mortaretti;
che si vedeva pallida e magra
tra il rintoccare delle campane.
Noi si tornava per una sagra
senza più padre senza più pane.
E disse un uomo; disse: e l'udiva
ella e ne pianse le lunghe notti
e ne fu trista fin che fu viva,
un anno: "Un nido, ve', di farlotti!"
Verlette, quando v'odo cantare,
nunzie che il caldo viene e la state,
nelle mattine tacite e chiare,
nelle opaline lunghe serate;
Oh! - dico - il nido fatto tra i rovi.
il vostro nido messo tra il rusco,
oh! che il villano non ve lo trovi,
il molle nido pieno di musco!
che rozzo è fuori, radiche e stecchi,
ma dentro è tutto lana e lichene,
dove d'un solo tratto sei becchi
s'aprono a un solo grillo che viene!
viene nel becco vostro, che intanto
state sur una vetta vicine
spiando il cibo raro e col canto
cullando il nido ch'è tra le spine!
Oh! voi non, mentre gettate il grido
che salva gli altri, predi l'astore;
né il bruco e il grillo manchi nel nido,
né il calduccino di sotto il cuore!
E quando viene Santa Maria
che rende all'uomo l'arma sua lunga,
oh! la covata vostra già sia
buona a volare; ch'e' non vi giunga!
Siano volastri per mezzo agosto,
né con la mano l'uomo li pigli
dopo un voletto, poco discosto
dal nido... come, madre, i tuoi figli!
E come, o madre, quella parola
ti si confisse tanto nel petto,
che assomigliava la famigliuola
tua nuda a quella d'un uccelletto?
O madre! o madre! non era vero?
non eran ali dunque le tue?
non anche prese te lo sparviero
lasciando il nido senza voi due?
prima con otto bocche, poi sette,
sei, cinque... aperte sempre al tuo volo,
aperte invano... sì, di verlette:
nido fra i duri triboli solo.
Tra quei che il falco non ghermì poi,
o l'uomo vile, madre mia santa,
tra quei farlotti piccoli tuoi,
uno non vola dunque? non canta?
non era vero vero? le prime
arie non canta, semplici e tristi?
non vola, in alto, poi dalle cime
scende là dove tu gli sparisti?



52. Il sogno della vergine

I
La vergine dorme. Ma lenta
la fiamma del puro alabastro
le immemori palpebre tenta;
bussa alla chiusa anima. Il lume
vacilla nell'ombra, come astro
di vita tra un velo di brume.
Echeggia nell'anima, invasa
dal sonno, quel battere, e pare
destare la tacita casa.
La casa si desta: un sorriso
s'accende, si muove ed appare
via via qua e là per il viso...
La vergine sogna: ed un rivo
di sangue stupisce le intatte
sue vene, d'un sangue più vivo,
più tiepido: come di latte...

II
Stupisce le placide vene
quel flutto soave e straniero,
quel rivolo, labile, lene,
d'ignota sorgente, che sembra
che inondi di blando mistero
le pie sigillate sue membra.
Le gracili membra non sanno
lo schianto, non sanno l'amplesso:
nel cuore, sì, forse un affanno
c'è, l'ombra di un palpito, l'orma
d'un grido: il respiro sommesso
d'un vago ricordo che dorma;
che dorma nel cuore ed esali
nel cuore il suo sonno romito.
La vergine sogna: ecco un alito
piccolo, accanto... un vagito...

III
Un figlio! che posa nel letto
suo vergine! e cerca assetato
le fonti del vergine petto!
O figlio d'un intimo riso
dell'anima! o fiore non nato
da seme, e sbocciato improvviso!
Tu fiore non retto da stelo,
tu luce non nata da fuoco,
tu simile a stella del cielo;
dal cielo dell'anima, ov'ora
sbocciasti improvviso, tra poco
tu dileguerai nell'aurora.
In tanto tu vivi per una
breve ora; in un'anima, in tanto,
di vergine; in quella tua cuna
tu piangi il tuo tacito pianto.

IV
Si dondola dondola dondola
senza rumore la cuna
nel mezzo al silenzio profondo;
così, come tacito al vento,
nel tacito lume di luna,
si dondola un cirro d'argento.
Oh! dormi col tremolìo muto
dell'esile cuna che avesti!
non piangerlo tutto, il minuto
che avesti, dell'esile vita!
nel cuore di mamma non resti
quell'eco di pianto, infinita!
Sorridile, guardala; appressati
a mamma, ch'ormai non ha più,
per vivere un poco ancor essa,
che il poco di fiato ch'hai tu!

V
Il lume inquieto ora salta
guizzando, ora crepita e scende:
s'è spento. Quiete più alta.
Nell'ombra già rara, già scialba
traverso le immobili tende
si sfuma la nebbia dell'alba.
Il fiore improvviso, non sorto
da seme, non retto da stelo...
svanito! Non nato, non morto:
svanito nell'alito chiaro
dell'alba! svanito dal cielo
notturno del sogno! - Cantarono
i galli, rabbrividì l'aria,
s'empì di scalpicci la via;
da lungi squillò solitaria
la voce dell'Avemaria.



53. Il mendico

I
Soletto su l'orlo di un lago
che al rosso tramonto riluce,
v'è un uomo col refe e con l'ago
che cuce
tra l'erica bassa.
E cuce; e nel cielo turchino
già ridono l'aspre civette,
e il lago sul capo suo chino
riflette
qualche ala che passa.
E cuce; e i suoi cenci nell'acqua,
trapunta di tacite bolle,
si specchiano, e l'ombra li sciacqua
con murmure molle.

II
Ma in tanto che, ombrato da un velo,
nell'acqua il lavoro suo fiotta,
tra l'urto dei cirri del cielo
s'è rotta
la tenue gugliata.
Egli alza la testa. Il suo filo
s'è rotto; e si sente dai tufi,
dall'inaccessibile asilo
dei gufi,
la morte che fiata.
E piccolo il sole che muore,
gli appare traverso la cruna
dell'ago. Egli dice nel cuore:
- Ti lodo, Fortuna!
III
Nel mondo a te piacque gettare
tuo figlio, terribile e gaia,
siccome al fanciullo, nel mare,
la ghiaia
che sbalzi su l'onde.
Ma tutto m'hai dato a ch'io viva:
la mano, che regge la croce,
il piede, che mai non arriva,
la voce,
cui niuno risponde.
M'hai dato la dolce speranza
che arretra se il cuore si avvia,
l'immemore cuore che avanza
su nave che scìa.

IV
Ho errato seguendo le foglie
che il vento sospinge per gioco,
sostando non più che alle soglie,
per poco,
tra l'ira dei cani.
Ho errato nel mondo sì bello,
seguìto da un cupo latrato,
tendendo all'oblìo del fratello
mutato
le simili mani.
Son giunto: alla tomba; che trova
contigua la querula cuna,
com'onda, ad ogni attimo nuova,
ritrova la duna.

V
Se a me non fu dato vederti
mai, ora non, avida ancora,
tentando le palpebre inerti,
lavora
la cieca pupilla.
Se non mi porgesti né un sorso
di dolce, le fauci inquiete
non m'arde con vano rimorso
la sete
dell'ultima stilla.
Non vidi che nero, non bebbi
che fiele; ma ingrato non sono:
ti lodo per ciò che non ebbi;
che non abbandono.

VI
Non ebbi il superbo banchetto
tra quelli che aspettano al canto
le miche: e né letto né tetto,
tra tanto
di popolo nudo.
Non verso nell'ultimo istante
la lagrima vile a versarsi:
la prima! la sola! E le tante
ch'io sparsi,
con gli occhi le chiudo.
Io nudo, bussando alle porte,
ti dico, nell'ora che imbruna:
Di dolce sol ebbi la morte;
ma tutto è quest'una!


VII
Io t'amo pel freddo e lo stento,
l'insonnia, il digiuno, l'affanno,
cui devo che senza sgomento,
che fanno
ch'esperto io rimuoia.
Io t'amo perch'ora meschino
non chiedo, felice non rendo;
ma stanco del lungo cammino
discendo
senz'onta di gioia;
discendo laggiù tra le grame
mie genti, nel mondo che tace,
tra gli umili morti di fame
che dormono in pace. -

VIII
Su l'orlo d'un lago nei monti,
fra stridulo ansare di grilli,
sul lago in cui, luna che monti,
scintilli,
c'è un nero, c'è un mucchio
di squallidi cenci e di membra,
c'è un uomo con gli occhi rivolti
nel lago, e che attonito sembra
che ascolti
l'eterno risucchio:
e simile a sogno di nulla,
nell'acqua c'è l'ombra sua bruna,
che appena si dondola e culla
nel lume di luna.



54. Ov'è?

C'è uno di nuovo stamane
su nella casa solitaria.
Dall'uscio leva il muso il cane,
ne odora la vocina in aria.
Eppure fu notte serena!
né l'uscio sui gangheri appena
ciulì...
Non l'hanno (che dicono?) preso
in una ceppa di castagno!
Stanotte si sarebbe inteso
nel gran silenzio quel suo lagno.
Invece nei prati tranquilli
non c'era che il canto dei grilli:
tri... tri...
Non l'hanno comprato alla fiera,
non l'hanno avuto dal convento.
Stanotte per le vie non c'era
che qualche scalpiccìo del vento;
e intorno alle tacite case
poi sola la voce rimase
del chiù.
Le case eran tacite, chiare
le vie; dormiva il cane all'uscio.
In casa egli dovette entrare,
come il pulcino nel suo guscio!
Cadevano stelle celesti,
brillando... Oh! dal cielo cadesti
pur tu!
Dal cielo! Dal cielo! che piove
la guazza su le dure zolle.
Tu sei caduto, e non sai dove,
e giri l'occhio tutto molle.
Non fu la caduta di nulla!
Ma c'era una morbida culla
per te!
Oh! il mondo in cui oggi ti trovi,
del tuo cielo non t'è più caro!
fai tante rughe! e sempre muovi
la bocca, che ci senti amaro!
Oh! il cielo! il tuo cielo! e ne chiedi
col fievole grido a chi vedi:
ov'è? ov'è?
Ne chiedi ai ragazzi, col giorno
venuti sopra il piè leggieri,
e alle rondini che intorno
passano come lampi neri.
Né più, tra il bisbiglio e il sussurro,
capisci il tuo cielo d'azzurro
dov'è!
Zitti!... ora non chiede più nulla:
dov'è, sua madre gliel'ha detto.
A lei lo porser dalla culla;
la mamma se l'è messo al petto.
Oh! ecco il suo cielo infinito!
e più non si sente il vagito:
ov'è? ov'è?



55. La servetta di monte

Sono usciti tutti. La serva
è in cucina, sola e selvaggia.
In un canto siede ed osserva
tanti rami appesi alla staggia.
Fa un giro con gli occhi, e bel bello
ritorna a guardarsi il pannello.
Non c'è nulla ch'essa conosca.
Tutto pende tacito e tetro.
E non ode che qualche mosca
che d'un tratto ronza ad un vetro;
non ode che il croccolìo roco
che rende la pentola al fuoco.
Il musino aguzzo del topo
è apparito ad uno spiraglio.
E` sparito, per venir dopo:
fa già l'acqua qualche sonaglio...
Lontano lontano lontano
si sente sonare un campano.
E` un muletto per il sentiero,
che s'arrampica su su su;
che tra i faggi piccolo e nero
si vede e non si vede più.
Ma il suo campanaccio si sente
sonare continuamente.
E` forse anco un'ora di giorno.
C'è nell'aria un fiocco di luna.
Come è dolce questo ritorno
nella sera che non imbruna!
per una di queste serate!
tra tanto odorino d'estate!
La ragazza guarda, e non sente
più il campano che a quando a quando.
Glielo vela forse il torrente
che a' suoi piedi cade scrosciando;
se forse non glielo nasconde
la brezza che scuote le fronde;
od il canto dell'usignolo
che, tacendo passero e cincia,
solo solo con l'assiuolo
la sua lunga veglia comincia,
ch'ha fine su l'alba, alla squilla,
nel cielo, della tottavilla.



56. Addio!

Dunque, rondini rondini, addio!

Dunque andate, dunque ci lasciate
per paesi tanto a noi lontani.
E` finita qui la rossa estate.
Appassisce l'orto: i miei gerani
più non hanno che i becchi di gru.

Dunque, rondini rondini, addio!

Il rosaio qui non fa più rose.
Lungo il Nilo voi le rivedrete.
Volerete sopra le mimose
della Khala, dentro le ulivete
del solingo Achilleo di Corfù.

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

Voi cantate forse morti eroi,
su quest'albe, dalle vostre altane,
quando ascolto voi parlar tra voi
nella vostra lingua di gitane,
una lingua che più non si sa.

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

O son forse gli ultimi consigli
ai piccini per il lungo volo.
Rampicati stanno al muro i figli
che al lor nido con un grido solo
si rivolgono a dire: Si va?

Dunque, rondini rondini, addio!

Non saranno quelle che le case
han murato questo marzo scorso,
che a rifarne forse le cimase
strisceranno sopra il Rio dell'Orso,
che rugliava, e non mormora più.

Dunque, rondini rondini, addio!

Ma saranno pur gli stessi voli;
ma saranno pur gli stessi gridi;
quella gioia, per gli stessi soli;
quell'amore, negli stessi nidi;
risarà tutto quello che fu.

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

io li avessi quattro rondinotti
dentro questo nido mio di sassi!
ch'io vegliassi nelle dolci notti,
che in un mesto giorno abbandonassi
alla libera serenità!

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

rivolando su le vite loro,
ritrovando l'alba del mio giorno,
rimurassi sempre il mio lavoro,
ricantassi sempre il mio ritorno,
mio ritorno dal mondo di là!



57. Il ritratto

I
Nel collegio d'Urbino il mio fratello
faceva in grande un piccolo ritratto.
Quando il già fatto a noi parea pur bello,
sotto la gomma il bello era già sfatto.
Tornavamo scontenti alla finestra
per guardare, intrecciati alla ringhiera,
se una carrozza per la via maestra
montava nella pace della sera.
Era pace nei cuori. Era l'esame
passato alfine con le sue lunghe ore:
tranquillo alfine da più dì lo sciame
ronzava nella nuova arnia maggiore.
Più grande all'improvviso ogni fanciullo
si ritrovava dopo tante acquate;
il boccio apriva i petali in un frullo
meravigliando che già fosse estate;
e che fosse già colto, anzi, il ciliegio,
ma che di rosa si tingesse il melo;
che fosse tanto verde oltre il collegio,
ch'oltre la scuola fosse tanto cielo.
Si ronzava: non altro. Fra due scuole
già chiuse, una di fronte, una alle spalle,
nel mezzo c'era l'aria, c'era il sole,
odor di timo e voli di farfalle.
Ma nell'ore, più brevi ma più lente,
di studio, tra due libri, ch'uno troppo
sapeva e l'altro non sapea più niente,
stanchi del nostro insolito galoppo,
con tra le mani che sentian di lauro
e di busso, le guancie ancor di fiamma,
noi pensavamo al nostro bel San Mauro,
al babbo atteso d'ora in ora, a mamma...
Se il babbo, a casa, col più grande ch'era
già di liceo, portava anche noi tre!...
Era quello, lo studio: una preghiera,
prima che al babbo, o Dio presente, a te!
II
Il più grande, un fanciullo esile e bianco,
nostro babbo d'Urbino, al suo ritratto
calmo attendeva; ed ogni tanto al fianco
gli era un di noi che gli chiedeva: E` fatto?
Quasi... Ma il babbo arriva questa sera.
ed il ritratto non sarà finito!
Tornavamo a intrecciarci alla ringhiera,
a riguardare, ad appuntare il dito,
a dire, Vedi? a dire, Viene! O belle
serate, fin che il cielo era celeste,
e le vie bianche, e non ardean le stelle
sopra il nero di monti e di foreste!
Ma crescendo il silenzio, come triste
sonava la campana della cena;
mentre stelle lassù, viste e non viste,
cadevan per l'oscurità serena!
Oh! non veniva, non veniva ancora!
Il ritratto, sì, forse era venuto.
Anche due segni, l'opera d'un'ora,
di due: sarebbe vivo, benché muto.
Sì: finito in alcune ore, domani!
e sì: domani, ci sarebbe anch'esso!
Lo spiegherebbe tra le sue due mani,
sorriderebbe tacito a sé stesso;
e quindi al figlio, al caro primo, al vanto
di casa, al fiore che già dava il frutto:
e poi, con gli occhi molli un po' di pianto;
anche ai minori - Eh! sapevate tutto? ! -
troverebbe una lode anche per loro...
Domani, dunque, all'ora del tramonto.
Il fanciullo, il domani, era al lavoro;
verso sera il lavoro era già pronto.
Mancava un nulla. Noi fissi alla via,
a una carrozza che montava su...
Oh! gittò un grido, spinse tutto via,
e tutto in pianto non lavorò più!

III
Era il dieci d'agosto. Era su l'ora
dello scurire. L'ora del ritorno.
Non attese al ritratto egli d'allora
più. Mai più, da quell'ora e da quel giorno.
Quella sera restammo alla finestra,
ancora, ancora. Ma pareva in vano.
Sì: era, il babbo, in una via maestra:
sì, ma come, ma quanto era lontano!
Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure,
oltre città. Veniva da Cesena.
Di buon trotto. Non anco erano oscure
le strade. Solo. L'anima, serena.
Oltre fiumi, città, monti, da un monte,
il caro figlio lo guardava in viso:
ne sfiorava la bianca larga fronte,
sorrideva al suo placido sorriso.
Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca
fronte d'un tratto si macchiò di stille
rosse, la testa in un attimo stanca
per sempre, si piegò, con le pupille
ferme in eterno... O tu che sei congiunto
a lui, ch'oltre lo spazio, oltre la vita,
vedevi allora, oh! non egli in quel punto
si sentì su la fronte le tue dita?
La tua carezza non gli fu conforto
tra il sudor freddo e il rompere del sangue?
Non gli fu meglio, o mio fratello morto,
non veder là un doppio teschio esangue
dietro la siepe, e due vili ombre nere
fuggir nell'ombra; ma veder te, noi?
miseri, sì, per sempre, ma vedere
nella via sola quattro figli suoi?
Nella via sola, dopo il soprassalto
di pianto, tutti quattro, orfani già,
guardammo ancora. E poi guardammo in alto
cader le stelle nell'oscurità.



58. La cavalla storna
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d'otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch'hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla".
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l'amavi forte!
Con lui c'eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l'ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l'agonia..."
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
"O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l'eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole".
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l'abbracciò su la criniera
"O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l'unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.



59. In ritardo
E l'acqua cade su la morta estate,
e l'acqua scroscia su le morte foglie;
e tutto è chiuso, e intorno le ventate
gettano l'acqua alle inverdite soglie;
e intorno i tuoni brontolano in aria;
se non qualcuno che rotola giù.
Apersi un poco la finestra: udii
rugliare in piena due torrenti e un fiume;
e mi parve d'udir due scoppiettìi
e di vedere un nereggiar di piume.
O rondinella spersa e solitaria,
per questo tempo come sei qui tu?
Oh! non è questo un temporale estivo
col giorno buio e con la rosea sera,
sera che par la sera dell'arrivo,
tenera e fresca come a primavera,
quando, trovati i vecchi nidi al tetto,
li salutava allegra la tribù.
Se n'è partita la tribù, da tanto!
tanto, che forse pensano al ritorno,
tanto, che forse già provano il canto
che canteranno all'alba di quel giorno:
sognano l'alba di San Benedetto
nel lontano Baghirmi e nel Bornù.
E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
l'acqua mi sferza, mi respinge il vento.
Non più gli scoppiettìi, ma le remote
voci dei fiumi, ma sgrondare io sento
sempre più l'acqua, rotolare il tuono,
il vento alzare ogni minuto più.
E fuori vedo due ombre, due voli,
due volastrucci nella sera mesta,
rimasti qui nel grigio autunno soli,
ch'aliano soli in mezzo alla tempesta:
rimasti addietro il giorno del frastuono,
delle grida d'amore e gioventù.
Son padre e madre. C'è sotto le gronde
un nido, in fila con quei nidi muti,
il lor nido che geme e che nasconde
sei rondinini non ancor pennuti.
Al primo nido già toccò sventura.
Fecero questo accanto a quel che fu.
Oh! tardi! Il nido ch'è due nidi al cuore,
ha fame in mezzo a tante cose morte;
e l'anno è morto, ed anche il giorno muore,
e il tuono muglia, e il vento urla più forte,
e l'acqua fruscia, ed è già notte oscura,
e quello ch'era non sarà mai più.




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