Ringraziando Ivo Moriconi, vi proponiamo di seguito uno scritto di Angelo Moriconi dal titolo “Pascoli e i Mere” già pubblicato qualche anno fa sotto forma di opuscolo, nel quale si racconta di un Pascoli quasi inedito, o comunque lontano dalla veste “istituzionale” di poeta.
Nell’introdurre la pubblicazione, che narra del rapporto tra Giovanni Pascoli e della famiglia Arrighi, Ivo Moriconi scriveva: “Il Mere, al secolo Giovanni Arrighi, era il nonno materno di mia madre, e dell’episodio in casa mia se ne è sempre parlato e mio padre in questo opuscolo lo illustra debitamente evidenziando come nel Poeta, sia gli scatti d’ira come gli slanci di altruismo, di umanità e di nobiltà si equivalessero” sottolineando come questa memoria, pressoché diretta, contribuisca a “rappresentare il lato umano e sociale del grande poeta con un fatto realmente accaduto ma che non viene riportato completamente né dalla critica né dalla biografia”.
Pascoli e i Mere
In lettere del Pascoli al Caselli e ad altri, per i primi sei anni dopo la sua venuta a Castelvecchio (1895), troviamo parole di lode e di benevolenza per il “Tono”, per la “Chiara”, per la famiglia “Mere” insomma, la quale lavorava i terreni annessi alla casa di Pascoli; ed abitava proprio nella “Chiusa”.
Alla pagina 679 di “Lungo la vita di Giovanni Pascoli” il compilatore, parlando del Mere (siamo nel 1901), dice “Ora quella gente, prima amica e servizievole, nella previsione di un licenziamento con conseguente sfratto, si era messa a far tutti i dispetti e tutte le minacce (o almeno il Poeta e Maria li soffrivano come tali).”
“La situazione si aggravava per l’episodio della bicicletta” ecc.
L’episodio della bicicletta è noto1. E noi sappiamo che il dissenso fu originato proprio da quel piccolo incidente: l’uno e l’altro enormemente ingranditi ed esasperati dalla ipersensibilità dei fratelli Pascoli, portarono conseguenze impensate. Poi, si sa, come sempre accade, dal becco allo stecco: una pulce sembra un cavallo.
Dico che il dissenso ebbe principio dall’incidente della bicicletta: perché, anche se non esistessero testimonianze in senso diverso, è ragionevole che il Pascoli non avrebbe mai dato in mano la sua bicicletta “bellissima”, di cui era geloso, a un suo nemico. Non bastava aver dato a credere “che ci sapeva andare”. Poi il dubbio che i dispetti e le minacce dei Mere potessero essere frutto di fantasie agitate, è stato accennato, come abbiamo visto, anche dall’estensore delle memorie.
Dalle “lettere ad Alfredo Caselli” ne vediamo due con la stessa data (16 luglio 1901), in cui la prima fa molti elogi al “Tono” e l’altra, molto biasimo. Proprio in quel punto, con la rottura della bicicletta avvenne la rottura della buona armonia coi Mere.
Dice il Pascoli: “Quanto alla bicicletta, bellissima, l’altr’ieri giunse e ieri sera… era rovinata”. E dopo vari apprezzamenti che, come altri della lettera, per comprenderli e non sorriderne è necessario collocarli nella visuale del loro tempo: “Finalmente ci manda a casa la bicicletta in pezzi, e lui è in disparte a piangere e a domandare (senza piangere) che cosa abbiamo detto. E i suoi che sono vigliacconi a dire: Sciocco, o che piangi? Ti fossi rotto un po’ la testa! Ma che è? Eh se tutte le disgrazie fussin così! Etc. etc. Il che prova che noi siamo coglioni”
Ma da una madre – o da un padre – non si può pretendere che importi meno del figlio che di una bicicletta (a cui peraltro era solo sciupato un pedale) anche se è quella, poniamo, del più illustre Poeta del mondo.
E questa elementare impostazione avrebbe dovuto essere compresa facilmente, invece…
Sappiamo che la Chiara voleva far riaccomodare la bicicletta e a sue spese, ma il poeta non volle. La rimandò al Caselli che gliel’aveva procurata, per la riparazione; poi se ne disfece. Disperando, forse, di potersene servire lui.
Alla Chiara, donna semplice e pratica illetterata, naturalmente, importava un cavolo delle poesie; e non era disposta a farsi abbaccare sulla pancia come avrebbe invece sopportato il Mere, più minchione.
Se escludiamo il momento della partenza da Caprona della famiglia Arrighi, al principio del 1903, in cui il Pascoli ha qualche parola grossa anche per il Mere, perché aveva dovuto sborsargli una bella sommetta per quel tempo, per le stime (240 e più lire, ed era stato inasprito, come vedremo, da una forte gazzarra in favore dei Mere stessi (che non poteva certo piacergli, poiché l’altra parte v’era Lui), gli strali non si appuntavano quasi mai contro la persona del Mere, appunto, perché lui non reagiva. Poi si comincia a dire “i Chiari”: a precisare che è lì il maggior punto di attrito.
E la Chiara è molto spesso gratificata di epiteti irripetibili, che lasciano, in specie in chi la conobbe e l’amò una penosa e disgustosa impressione: tanta è la carica di sdegno nel Pascoli! Ma anche la Chiara, che morì settantaquattrenne nel 1923 ed ebbe l’onore di una epigrafe dettata da Mariù (per quanto anonima), la quale si può ancora leggere nel cimitero di Castelvecchio Pascoli, anch’essa e la sua famiglia, ebbero per lunghi anni protezione e aiuti, anche concreti, da Mariù – che peraltro aveva lo stesso temperamento del fratello – : sottintesa riparazione di danni, più che altro morali.
Quando i contadini Mere, malamente cacciati da Pascoli, partirono da Caprona, i paesani che parteggiavano per loro, ed erano i più, fecero ciò che il Pascoli stesso scrisse al Caselli: “Oggi una grande dimostrazione con bandiere e evviva altissime è passata sotto le mie finestre accompagnando il Mere. È una dimostrazione contro di me”. “Sento le grida feroci che accompagnano il ladro, il birbante tagliatore d’alberi e di viti, il mascalzone, che da più di un anno avvelena l’esistenza del poeta di Castelvecchio”.
Immaginarsi l’irritazione!
Il Poeta ne fu tanto indignato, che avrebbe voluto mutare il titolo ai “Canti di Castelvecchio” ormai in via di stampa. Nel momento della dimostrazione lavorava nella casa Pascoli un muratore di Castelvecchio, Giuseppe Bonini (1856-944), che troviamo più volte citato nelle lettere al Caselli e nella biografia pascoliana; il “Savoia”, a cui il Poeta, che era con lui, chiese il parere su quella inconsueta, rumorosa manifestazione. Ma quando capì che anche lui consentiva coi Mere, contrariato, lo licenziò all’istante, seppur con buone maniere.
Infatti al posto del Savoia, ancora vivo e vegeto, prima trattato con simpatia, troviamo come muratore in casa Pascoli Fortunato, del quale ho potuto sapere, da un suo discendente, che era Fortunato Cecchini, classe 1878, di Catagnana, poi espatriato.
“Quel bravo Fortunato, lui sì che è intelligente e diligente” (lettera del Poeta all’Attilia): e anche questa sottile allusione può accreditare la veridicità del fatto di cui sopra. Si racconta che nel muro pascoliano i fori per il ponte murario rimasero a lungo. E si dice ancora che proprio da uno di quei fori sarebbero passate le api per entrare in casa: soggetto di una bella prosa del Pascoli, “Il tesoro”. Quando si dice le occasioni!
Abbiamo notato lo sdegno del Pascoli verso i “Chiari”; ma poi il tempo che rimargina le ferite, sopisce anche gli odi e prepara inopinate disposizioni.
Dopo alcuni anni ecco il fatto nuovo: un fatto singolare, che fa onore al Pascoli. Un giorno che il Poeta ritornava in compagnia di amici, preso da uno dei suoi non infrequenti momenti di intensa umanità, dopo chi sa quanti ripensamenti e macerazioni, sentì forte in sé il rimorso per le ingiustizie fatte al Mere, al punto di arrivare a dire che non sarebbe rientrato in paese senza prima aver ottenuto il perdono di una certa persona (la quale , forse impersonava tutta la famiglia). Allora uno dei suoi amici, che non so chi fosse, gli domandò chi era costui, che avrebbe cercato lui di provvedere alla bisogna. Al che il Poeta rispose che era Giovanni Arrighi, detto il Mere.
Era il giorno delle quarantore (1905): e il mere fu trovato nella chiesa di San Nicolò che, quale sagrestano, accendeva le candele davanti al Santissimo. Alla proposta che il professore lo desiderava subito da lui, egli commise la continuazione del suo incarico al figlio Tono, e andò immediatamente, accompagnato dalla giovane figlia Carolina, ad incontrare il Poeta, che lo aspettava in ansia al limitare del paese; dove i due uomini si abbracciarono piangendo di commozione: il Poeta chiedendo perdono al mere per i suoi riconosciuti torti e soprusi; l’altro a dire che lui aveva già e sempre perdonato.
Ed era vero, poiché il mere non era uomo che sapesse portare rancore. Il poeta fece poi salire sulla carrozza il nemico – amico, felici entrambi della ritrovata armonia.
Nella primavera del 1907 il Mere s’ammalò; e dopo nove mesi di malattia, il 3 dicembre morì. Era nato nel 1835; date per me ricordevoli, poiché coincidono con quelle del Carducci, del quale in quel tempo il Pascoli occupava l’alta cattedra a Bologna.
Durante la malattia del Mere, il poeta ebbe la fortunata occasione, a conferma dei suoi mutati sentimenti verso di lui, di andarlo a visitare, portandogli in dono vino dolce. E continuò a mandargliene, accompagnato da parole di conforto e di benevolenza, per tutta la malattia.
Queste ultime vicende mi sono narrate da persone degne di fede: da chi le visse e da chi le aveva apprese da chi le visse e da persone ad esse vicine. Vicende, nelle quali credo vi possa essere l’inedito meritevole di attenzione, che può giovare a illuminare la complessa, tormentata, nobile figura di Giovanni Pascoli uomo, letterato e poeta grande.
Angelo Moriconi
1Nel 1901 Giovanni Pascoli ricevette tramite l’amico Caselli di Lucca una bella bicicletta nuova. Ancora prima di provarla lui stesso, il giorno dopo averla ricevuta chiese ad Antonio, figlio di Chiara Arrighi, di prendere la bicicletta e andare a comprare dei sigari presso l’osteria del Platano al Ponte di Campia, dato che il poeta stava aspettando ospiti ed a quei tempi era in uso offrire un buon sigaro durante la conversazione.
Il “Tono” partì spedito con la bicicletta del Poeta, ma giunto ad una curva appena fuori il paese trovò davanti a se un ostacolo che non riuscì ad evitare e cadde rovinosamente trascinando con se la bicicletta. Il giovane riportò alcune escoriazioni, mentre la bicicletta risultò un poco rovinata su un pedale. Il giovane riuscì comunque a soddisfare la richiesta di Giovanni Pascoli tornando a Caprona con i sigari, ma ahinoi, anche con le ginocchia sbucciate e la biciletta un po’ accoccata.