Marco Paolini è uno straordinario cantastorie, giocoliere di parole nei suoi spettacoli riesce sempre a trasportarci, divertirci e farci riflettere. E così è stato anche per il suo ultimo lavoro: “Itis Galielo” andato in scena sabato sera in un gremito Teatro dei Differenti. Dopo i successi degli spettacoli “Il racconto del Vajont” e “Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute” – per dirne solo due – Paolini ha deciso di portare in scena la storia di Galielo Galilei, mina vagante nell’ordine prestabilito dell’universo Tolemaico.
Si comincia a velocità supersonica: 1800 chilometri al minuto. È la velocità alla quale gira la terra e tutti noi che ci stiamo sopra e che non percepiamo questo movimento di rivoluzione. Per secoli il cielo era rimasto fermo alla teorizzazione aristotelica delle sfere celesti e poi tolemaica delle stelle fisse, fino a che l’astronomo polacco Niccolò Copernico non aveva scritto di una diversa dinamica dell’universo, con al centro il sole e la terra in moto intorno ad esso.
Al centro del palco una sfera sospesa con catene: sopra due date: 1543 e 1632. La prima è quella dell’anno in cui l’astronomo polacco diede alle stampe la sua teoria a pochi mesi dalla morte, la seconda è l’anno in cui vide la luce il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano”, che a Galileo costò il processo e la condanna della Santa Inquisizione.
Partendo, quindi, dall’analisi del famoso testo dello scienziato e filosofo toscano, Paolini introduce un discorso che si discosta ben presto dall’imprinting scolastico evocato anche nel titolo (dove ITIS sta per Istituto Tecnico Industriale) per mettere in evidenza attraverso la biografia, piuttosto che attraverso gli studi e le scoperte, i passi che portarono l’uomo Galileo a seguire sino in fondo le sue intuizioni.
Un Galielo lontano dall’iconografia classica: quello che Paolini ci propone è uno scienziato-meccanico, uno a cui piace lavorare, che ama sporcarsi le mani, un uomo pieno di curiosità e di domande, pronto a sfidarsi e a misurarsi con i numeri. Un Galileo umano e passionale che parla della sua amante Marina Gamba con la quale ha avuto tre figli ma che continua a non voler sposare. Ma anche un Galileo pavido, terrorizzato dalle conseguenze delle proprie scoperte messe nero su bianco. Un “precario antelitteram” che deve arrivare a fine mese e per mantenersi fa le previsioni dell’oroscopo.
Sempre in bilico tra passato e presente, tra una ristata e l’altra (“Galileo fu il primo precario dalla storia” o “I suoi genitori reagirono alla sua richiesta di studiare matematica come reagirebbe oggi un genitore alla richiesta del figlio di frequentare il DAMS”) ci fa pensare (“È facile ridere delle teorie passate, meno facile contestarle quando le viviamo”) riuscendo a tenere alta l’attenzione della platea, dall’inizio alla fine.
Cosa non facile, afferma, infatti: “Lo dicono già i maestri del teatro, Stanislavskj e tutti gli altri: l’attenzione è un fatto di cerchi, cerchio piccolo cerchio medio e cerchio grande. E’ inutile cercare di governare un cerchio grande di spettatori se sei capace al massimo di reggere il cerchio piccolo. Io adesso sono capace di fare il teatro davanti a due o tremila persone. Ho imparato, all’inizio me la sarei fatta addosso. Poi invece scopri una regola dei grandi numeri, che mille persone si comportano come una mentre cento si comportano come cento. Diventi bravo nel tempo: non credo che ci siano scorciatoie per arrivare prima a conquistare l’attenzione di un grande pubblico. Tutti i grandi predicatori prima sono stati parroci di campagna, più o meno”.
Nell’epoca in cui domina il linguaggio visivo ha riportato la narrazione a teatro con il suo corpo “antico” (“L’attore è un corpo antico fondato sul lavoro” afferma) riscuotendo sempre maggiori consensi: “sono stupito, ma accade. Non me ne frega niente del marketing. L’attore deve essere un ponte. Il rapporto di fiducia nasce dal rispetto reciproco. Io mi metto in gioco in prima persona, non conduco la partita, non mi metto a fare l’ipnotizzatore, non gioco mai con i poteri. Si potrebbe parlare di sincerità, ma nel teatro, il luogo della finzione per eccellenza, questo è un paradosso. Meglio parlare di onestà. E l’onesta è dare regole chiare, pulite”.
È consapevole del suo ruolo: “quando svolgi un ruolo pubblico sei come un medico: sei capace di dare vita o morte, magari non alle persone, ma alle cose: devi stare attento all’uso che ne fai. Non credo che ci sia una ricetta per salvarsi o salvare quello che fai. Credo che ultimamente il rischio di fare una puttanata ci sia e ci sarà sempre. Bisogna essere svegli, se ci si addormenta si fanno puttanate”.
Per lui il linguaggio è musica: “occorre sia imparare a suonare la musica già scritta (le poesie, i testi, la letteratura) sia imparare a improvvisare (cioè a suonare come nel jazz) e per me sono due musiche molto diverse ma mi piace l’idea di usarle tutte e due. Quando uso le parole degli altri cerco di suonare come nella musica classica, quando uso le mie posso improvvisare di più. Ma sempre se stai scrivendo, componendo o anche a volte suonando le parole degli altri bisogna ricordarsi di non usare troppe note e di non usare troppe parole, non è bella la musica se ha troppe note”. Già, non bisogna esagerare ma trovare il giusto equilibrio, è stata la poesia che gli ha insegnato a calibrare le parole: la poesia è, anche, sintesi .
Andrea Zanzotto – a cui l’attore bellunese ha dedicato una bellissima intervista video – diceva che il fine della poesia è “restaurare il vuoto che c’ è nel mondo”. E Paolini ha fatto di questa splendida affermazione la sua “microscopica” utopia. La sua missione.