Woody Allen dipana la sua storia romana in quattro episodi, di cui due a stelle e strisce e due italiani. Nel primo una coppia di americani, melomane (malvolentieri) in pensione lui (Woody Allen), psichiatra lei (Judy Davis) vanno nella città eterna per conoscere il fidanzato della figlia (Flavio Parenti). Il padre è avverso al futuro genero, avvocato sindacalista, e al papabile suocero, impresario di pompe funebri. Almeno finché non scopre che quest’ultimo (sotto la doccia) è dotato di una splendida voce baritonale che farebbe la fortuna di qualunque impresario. Nel secondo un architetto in vacanza (Alec Baldwin) disseppelle i ricordi della lontana giovinezza a Roma, cercando di dissuadere uno studente (Jesse Eisenberg) dal tradire la fidanzata con una migliore amica sedicente attrice (Ellen Page) che dietro un’affascinante aria nevrotica nasconde un’esistenza vuota e superficiale. Nella terza parte un anonimo impiegato (Roberto Benigni) diventa famoso da un giorno all’altro senza spiegazione. La repentina celebrità e ancor più la disastrosa caduta gli apriranno gli occhi sulla volatilità della fama da quindici minuti. Nell’ultimo episodio una coppia di sposini di provincia in luna di miele (Alessandro Tiberi e Alessandra Mastronardi, pessimi) si separa per una serie di casi fortuiti: lui deve far colpo sugli zii per un posto di lavoro, affiancato a causa di un equivoco da una procace escort (Penelope Cruz), lei si perde e incontra l’attore dei suoi sogni (Antonio Albanese), rischiando di cadere tra le sue braccia fino all’incontro con un ladruncolo da quattro soldi (Riccardo Scamarcio).
La cosa più desolante del film è la mancanza di idee. Per fare un paragone con Midnight in Paris, uscito nelle sale pochi mesi orsono, laddove nella versione parigina vi era una storia, una reale trama, originale e ben dipanata che non stancava mai e teneva ben desto lo spettatore, qui siamo all’apoteosi della noia. Roma è di una bellezza indescrivibile, intendiamoci, e Allen riesce a regalare scorci veramente suggestivi, cogliendone la particolare bellezza che si può manifestare sia nel silenzio di rovine senza tempo che nel chiasso del traffico e delle strade popolate. Purtroppo manca un buon soggetto, la sceneggiatura è inoriginale e priva di idee, l’alternanza tra un episodio ed un altro è pessima, dando l’impressione di lungaggini e accelerazioni senza senso: il film è piatto, noioso, non diverte per simpatia né colpisce per intelligenza. Il top dello sfacelo è nell’episodio italiano dei due sposini, che da omaggio allo Sceicco bianco felliniano scade nella più decadente imitazione, accentuata da interpretazioni pessime (Albanese resta comunque un genio) e da dettagli retrò che fanno allibire lo spettatore italiano, il quale non può a questo punto che ritornare sull’angoscioso interrogativo: che immagine hanno all’estero di noi?
To Rome with love insomma, davanti a tanto di regista e a tanto di città, immutata e immutevole, appare soprattutto una grande occasione sprecata. Il solo motivo per cui in realtà vale la pena andare a vederlo, è l’irripetibile opportunità di vedere il gotha degli attori italiani contendersi comparsate e battute di pochi secondi.