No so stagione, che più s’addica a questa terra, di quella che va da mezzo fruttidoro al declinante vendemmiale, quando la matura estate s’addolcia, per soggiacere all’autunno adolescente: blando sole in blando cielo, pastosità di toni in inorvidezza d’orizzonti le si attagliano, come a bel corpo di donna, fluida veste di seta cangiante, che ampia sveli senza fasciare.
Soffusa la luce, sfumate le cose, come in quei vasti e sfogati saloni moderni, ricchi ma sobri, in cui l’eguale chiarità non par si versi da innumerevoli lampade nascoste dietro i cornicioni incavati, ma quasi emani dalle superfici stesse e dai contorni.
Qui riposa lo sguardo e s’adagia lo spirito in una tranquillità che non è indolenza, in una serenità che non sa d’accidia: sembra che l’equilibrio, materiato ma invisibile, penda imminente nel cielo, su questa conca armonicamente conclusa di monti, e contemperi di sé cose e persone, gesti e parole, natura e arte, allacciando l’antico al moderno, il paesano all’importato.
Sicché, non urta quel che di esotico, innestato sul tronco nostrale, che qui si sente e si nota a quando a quando nei gusti, nelle maniere, negli usi, nei barbarismi d’oltremare inseriti nella limpida vena d’arcaica toscanità, nelle fisionomie e nelle figurine inconsciamente standardizzate di misses paesane, nelle palazzine seminuove e nei nuovissimi bangalò spaziati e giardinati, che s’allineano nel piano, ai margini d’un’incipiente antevista dritta e alberata, o s’ergono sui poggi, torno torno alle vecchie case della vecchia città, scalettate e acchioppate a ridosso del colle, che culmina nell’Aringo vetusto, sul cui spazio ancora torreggia e chiama a raccolta l’aula maestosa della fede, accanto ai resti della secolare loggetta della podesteria, che incisi negli stipiti e nelle soprassoglie, figurati negli stemmi grigia o di terracotta, serba i ricordi d’un’antica e non ingloriosa libertà comunale.
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Di lassù, in un tardo pomeriggio di fin d’estate, ammiravo la chiostra ariosa e conclusa fra i dorsi dell’Appennino, digradanti a semicerchio, e le Apuane in faccia, ardue nella linea armonica e sinuosa, di contro il cielo azzurroceruleo, che fa presentire il mare, non veduto, ma non lontano al di là.
Il sole occidente pareva radere, transitando, le creste e mandava bagliori si tenui che l’occhio poteva per un poco fissarlo. Lungo tutto il profilo dei monti serpeggiava una fascia smagliante di chiarità perlacca, che li stagliava più netti all’orizzonte: nei radi vapori, che, come fiati invisibili, aleggiavano alti sulla valle, si rifrangeva l’ultima luce blanda sopra le masse d’azzurro plumbeo e di viola intenso addensate nelle gole e negli anfratti; le falde del Giovo e del Rondinaio, il dorso rotondeggiante del Corfino, lontano, oltre e sopra le groppe accavallate dei colli, di contro il sole, si velavano di rosa cinerino; spolverava settembre d’oro antico le cupole verdi delle selve.
Era con me un vecchio amico, spirito agile e aperto, che volentieri, dagli articoli del codice e dalle prolusioni universitarie sull’essenza delle leggi, divaga nelle regioni dell’arte e del sentimento.
-Non conosco, mi disse, interrompendo, senza turbarlo, il silenzio, con quella sua voce pacata, ma profonda e sonora –paesaggio più squisitamente spirituale di questo.
Non era una frase a effetto, ma l’espressione d’un intimo convincimento improvvisamente sgorgato in laconiche parole, che coglievano nel segno, svelando il segreto di quella quasi misteriosa seduzione che emana da questa cittadina, un giorno accolta e appollaiata su questo sperone dell’Appennino, oggi accresciuta e dilatata nel breve pianoro, intorno al nucleo antico.
Il vero fascino sottile di questa terra non si sprigiona dalle mura delle vecchie e delle nuove case, ma si genera da quanto abbraccia l’occhio da ogni parte, aria, cielo, orizzonte, linee curve, sfondi, prospettive, nella cui armonia si plasmano le cose e l’anima della gente irrequieta, raminga e nostalgica, intraprendente e fattiva.
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Il sole aveva ormai valicato le creste e, mentre su in alto la luce iridescente andava smorendo, dal fondo della valle salivano lente e radenti le ombre.
Ci staccammo, io e l’amico, dal parapetto del vecchio Aringo, incamminandoci verso il lungo scalone che scende alle vie erte e tortuose e alle profonde callaie dense di soffice penombra.
Le Apuane magnifiche e sobrie nella loro arditezza, spiccavano plumbee contro lo sfondo acquamarina del cielo.
Era l’ora cantata da un giovanissimo poeta barghigiano, Domenico Carradini, morto, ancor diciottenne, d’improvvisa malattia, nel momento in cui si apparecchiava, con tutto l’entusiasmo dei suoi anni e della sua fervida mente, ad offrire alla Patria combattente le esuberanti energie del solido braccio e del precoce ingegno:
Le squille remote
dei paesi turriti ondeggiano,
di lenti tocchi echeggiano
le gole nivee. Ma un suono grave,
di tutti più soave,
dalla torre di Barga vola col vento.
Sul mare, sul piano, più nera,
discesa è la sera:
nell’aria violetta
la Pania si stacca e aspetta
immota. Che cosa? Chi sa?
Aspetta nei secoli, l’Eternità.
Mario Mazzoni – ottobre 1932
Da L’Artiglio di Lucca -15 dicembre 1932
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