Il Tra le righe di Barga- Winter Festival ha chiuso in bellezza sabato 20 aprile con la presentazione delle opere di Mario Rocchi, giornalista, critico d’arte e e per anni docente di educazione fisica negli istituti lucchesi. Autore della dissacrante saga della famiglia Balboa, qualcuno lo ha definito il Bukowski lucchese.
A portarlo a Barga il giornalista e editore Andrea Giannasi che, con il patrocinio del comune di Barga e la collaborazione della biblioteca comunale e della libreria Poli, ha ideato e conduce il “Tra le Righe” sia nella versione più conosciuta, quella che si tiene in estate, sia in questa prima versione invernale.
“Rocchi- spiega Andrea Giannasi – è creatore dei personaggi che incarnano il lucchese medio: erotomane, cattivo, molesto, sboccato, osserva un mondo falso, autocelebrativo e bugiardo. Mai scontato pone l’accento sulle ingiustizie che colpiscono i più deboli, sempre a vantaggio dei più forti. E nessuno si salva dalla feroce critica. La politica, la scuola, la chiesa sono gli obiettivi prediletti di uno scrittore normale. E qui il paradosso: Rocchi racconta la verità e definirlo “coraggioso”, come è accaduto in passato, significa compiere un errore enorme. Mario Rocchi dietro l’abuso della narrazione sessuale e pornografica ci svela i reconditi desideri di una società che si nasconde dietro i vestiti delle vetrine dei negozi di Fillungo”.
Proprio Giannasi ha scoperto e pubblicato tutti i romanzi di Rocchi. L’ultimo è Cronache di ordinario disordine.
Lui lo definisce: “uomo coraggioso che mi ha pubblicato cose che a chiunque sarebbero apparse scomode. Si è appassionato a quello che scrivo ed è diventato il mio punto di forza”.
Uscito dopo È triste Venezia: una storia d’amore fra un anziano critico d’arte e una pittrice trentenne che, come ci ha confessato lo scrittore: “esprime l’attaccamento alla vita che l’uomo sente sfuggirgli ed è anche il tentativo di colmare il vuoto affettivo che dentro di noi si fa sempre più grande man mano che gli anni passano”.
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La visibilità Rocchi l’ha ottenuta con la fortunata saga di Casa Balboa (tradotto anche in Francia dove ha venduto 2 mila copie come sottolinea con una punta di orgoglio) che però non pensa di riprendere. “Ogni storia ha il suo tempo, anche dal punto di vista della prosa, soprattutto di essa, e Balboa ha concluso il suo tempo”.
Scrive da una vita anche se ha iniziato a pubblicare libri da circa dieci anni.
“Ho molti scritti, come si usa dire, nel cassetto. Ma non credo che li pubblicherò mai. Pur riconoscendogli il valore (a volte li prendo in mano e mi stuzzicano), li sento anacronistici. Forse mi sbaglio, ma preferisco pubblicare scritti nuovi che scaturiscano dall’uomo che sono ora”.
La sua esperienza giornalistica gli è servita molto. “Soprattutto per una certa prosa scarna, che mira al sodo, senza tanti fronzoli”.
Qualcuno nella sua scrittura riconosce anche un carattere cinematografico, lui non smentisce anzi, spiega: “quando scrivo vedo la scena che descrivo come proiettata su uno schermo e quando adopro dialoghi mi sembra di scrivere una sceneggiatura”.
Con Lucca – la città in cui è nato e ha vissuto – ha un rapporto di odio-amore.
“Odio per la mentalità ristretta, per il bigottismo, per il poco senso del nuovo. Amore per la bellezza che, a mio avviso, la fa una delle più belle città in assoluto d’Italia. E per la sua vivibilità. E anche per una certa riservatezza della gente che non mi dispiace affatto”.
Lucca in questi ultimi anni per molte cose è rimasta la stessa, è cambiato dal punto di vista turistico
Ricorda: “solo una ventina di anni fa l’estate a Lucca era un mortorio. Ora è la stagione più viva. E’ diventata una città a elezione turistica. In un certo senso ricorda, in tono minore, Venezia. Aveva ragione la regista Jane Campion, che era nella nostra città a girare “Ritratto di signora”, quando alla domanda se le piaceva Lucca rispose: è una Venezia senz’acqua. Dunque è cambiata per il turismo che la rende più viva. Ma c’è sempre qualche lucchese che si lamenta perché c’è troppa gente per le strade. Per le altre cose è sempre la solita bomboniera”.
È insoddisfatto del panorama artistico contemporaneo.
“Siamo rimasti, se non ai vecchi, all’età di mezzo. Poi c’è stato il vuoto. Ma questo non solo a Lucca, ma in Italia e nel mondo. Oggi l’arte non la fanno più gli artisti ma i mercanti. Se un mercante vuole lanciare un nome anche insignificante, lo mette sul mercato americano e il pubblico abbocca. La Transavanguardia ne è un esempio. E poi con la cosiddetta arte contemporanea (che avrebbe anche nomi importanti), chiunque può bluffare”.
A proposito di artisti è grande amico di Antonio Possenti “uno dei più grandi d’Italia”, dai tempi della gioventù, ha seguito la sua carriera e lui, l’amico pittore, ha illustrato le copertine di tutti i suoi libri.
Innamorato di Pavese, di Thomas Mann, Hemingway, Scott Fitzgerald, Faulkner, Moravia, Verga, oltre naturalmente ai mostri sacri della letteratura russa, francese, americana. Oggi legge molti scrittori nordici, svedesi, norvegesi, finlandesi oltre agli americani grandiosi come Cormac McCarthy, Philip Roth, ma anche Bukowski, John Dante e il cubano Gutierrez.
“Tutti decisamente hanno avuto influenza su di me. Quello che mi è rimasto dentro è impercettibile ma viene fuori al momento opportuno”.
Ha viaggiato molto: Cina, Russia, Sri Lanka oppure nel Brasile, Guatemala, Messico, Cuba, Caraibi, Africa, ma ciò che più lo ha segnato sono tutti i viaggi giovanili in autostop a giro per l’Europa. “Quelli sono stati una vera scuola di vita e, per quei tempi, andare in autostop fino al circolo polare artico, non era cosa da poco. E poi il fare i più disparati lavori per mantenersi. Quella è stata una vera scuola di vita che mi ha segnato positivamente”.
Scrive di notte, ma non tutte le notti. “Quando inizio a scrivere un romanzo, ho una vaga idea della storia che voglio buttare giù. Più che altro ho uno spunto iniziale. La storia e quello che intendo dire, mi si formano nella mente scrivendo perché non scrivo quello che voglio, ma quello che penso anche inavvertitamente, quello che sento. Quindi ne devo dedurre che scrivo perché se non scrivessi andrei in depressione. Cosa potrei fare senza “mestiere” che non pensare al “nulla” che mi circonda? Sarebbe una cosa terribile. Dunque lo scrivere per me è una specie di seduta psicoanalitica: scrivo perché sento la necessità di tirar fuori quello che ho dentro, esprimo quanto c’è nel mio subconscio. E’ per questo che i miei scritti non riesco a controllarli emotivamente, ma nemmeno tecnicamente, tanto che partito da un’idea, mi posso benissimo trovare a descrivere cose a cui non avevo pensato nemmeno lontanamente”.
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