Da bambino mi soffermavo ad osservare le api e, ammirato per la loro operosità, mi ponevo una domanda: sono felici? Forse quella domanda era infantile, ma ancora oggi mi sorprendo di fronte ai segni di una simile operosità e la domanda torna a galla nella mia mente in circostanze particolari, sebbene la pronunci con qualche pudore in più. E’ successo di nuovo nei giorni scorsi quando, grazie all’avvio di una collaborazione con “Il Ciocco“, mi sono avventurato in un modo nuovo alla scoperta delle terre comprese tra Barga e Fosciandora.
In compagnia dell’amica e collega Serena Scalici, scarponi ai piedi e tanta voglia di ri-scoprire*, ho lasciato le mie impronte per strade e sentieri in cerca di paesaggi, scorci suggestivi e curiosità naturalistiche che mi aiutassero nel lavoro di guida ambientale. Non è una novità e, tutto sommato, può sembrare ovvio, ma quello che più mi ha colpito è l’operosità della gente che vive in queste zone. Talora lo fa in modo direttamente percepibile con la presenza di persone che si incontrano, che salutano, che sono subito disposte a scambiare due parole e una battuta, magari mentre lavorano. Altre volte lo fa in modo meno diretto ma altrettanto efficace, cioè plasmando le forme del territorio in un lavoro il cui inizio si perde in un passato misurabile in secoli e millenni.
E’ così che della bellissima Barga ci rimane nella memoria la baldanzosa e po’ spericolata kermesse di chi conduce a casa la legna tagliata nel bosco, il bottegaio con cui si parla di pievi romaniche e dei legami del Duomo con un antico osservatorio dei liguri-apuani, i sacchi in cui sono esposti, come in tempi che sembrano ormai dannatamente lontani, legumi, farine e granaglie. E molti altri piccoli particolari.
Noi che siamo appassionati di territorio col pallino per la natura e l’ambiente non possiamo non andare in cerca di ammoniti nel pavimento del Duomo o non rimanere estasiati mentre camminiamo su un mare di scaglie (le “brattee” dei botanici) cadute dalle “pigne” (gli “strobili” dei botanici, sempre loro!) del cedro che fa compagnia a questa mirabile chiesa. Superato quel mare ci affacciamo sui contrafforti dell’appennino che guardano Barga e non è possibile non cogliere il segno tangibile ed evidente dell’operosità delle genti che vivono in queste terre. Il lavoro, quello che dà il reddito principale, spesso si trova altrove, ma l’opera più importante la svolgono qui: campi coltivati, case curate, antichi casolari che nell’abbandono manifestano ancora una propria eleganza paesaggistica e testimoniano un’agricoltura diversa e più popolata. Filari di viti, i pioppi lungo i corsi d’acqua, qualche lontano belato e più il alto i castagneti: difficile non sentirsi immersi in una poesia divenuta paesaggio. Difficile trascurare le parole di Giovanni Pascoli che di queste genti citò le parole in riferimento al Duomo: “piccolo il mio, grande il nostro”, piccolo ciò che è mio, ma grande il nostro duomo. A guardar bene, però, qui sembra che tutto sia grande, che l’attenzione alle terre sia pari a quella per la città e per la grande cattedrale.
Ci sono altri segni che raccontano della vita di ogni giorno.
Il percorso per giocare a “campana” tracciato sul vialetto d’accesso a casa, i bambini che giocano a pallone o che cercano di fare canestro in una finestrella del campanile, le campane pronte a suonare dicendo a tutti, come accaduto per secoli, che ore sono o che è ora di andare a messa, due anziani seduti nell’aia di casa pronti a raccontare storie di vita vissuta, a dare una carezza ai nipoti o a regale un sorriso a turisti venuti da lontano o ai nipoti di chi da qui è partito in un tempo lontano.
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Poi ci sono le storie incredibili di posti semplici e lontani dalla frenesia del mondo moderno.
Ne incontriamo una entrando nella chiesa di Catagnana. Proprio mentre ci avviciniamo all’altare sulla nostra destra compare un bizzarro serpente. No, non è un vero serpente ma un via di mezzo tra una statua appesa ad una parete e un grosso soprammobile. Ha un’aspetto strano e, forse, poco consono a questi luoghi, quasi orientaleggiante. Poco importa il suo aspetto. A contare sono le storie che su di esso si raccontano. Un grande serpente sarebbe uscito dalle viscere della terra dopo uno spaventoso terremoto. Sarebbe questo il motivo per cui la gente di Catagnana l’avrebbe voluto in chiesa: per ricordare lo scampato pericolo e per rendere omaggio alla Madonna che proprio il serpente seppe schiacciare con la propria purezza. Una seconda storia racconta, invece, che quel serpente sarebbe stato un erede del demonio che vagava per le campagne. I catagnanesi lo avrebbero catturato e imbalsamato. Quell’esemplare nel tempo sarebbe stato sostituito con quella bizzarra copia che ancora oggi si può vedere. Storie o leggende, realtà o immaginazione? Che importa? A noi piace farci rapire dalla suggestione.
Il cammino prosegue lungo un sentiero inaspettato e piacevole. Quando il bosco sembra aver preso il sopravvento, sia sul nostro percorso, sia su antichi castagneti e coltivi, ecco che ci troviamo tra gli olivi, su terrazzamenti ancora curati e al margine di campetti appena lavorati. E’ un modello che si ripete più volte: tratti in cui l’uomo non ha saputo perpetuare la coltivazione preso dai cambiamenti degli ultimi 60-70 anni e altri in cui sembra ancora ricamare la terra con mani sapienti. Non ci sono i grandi trattori, al massimo dei piccoli trattori, spesso dei semplici motocoltivatori. Ci sono mani esperte che potano e legano i tralci delle viti, che curano gli olivi, che raccolgono le castagne. Mani che sanno mettere a dimora un pomodoro e seminare un cereale. Mani e cuori al lavoro.
Poco prima della fine della nostra passeggiata, ormai giunti nel comune di Fosciandora, incontriamo chi con cuore e mani esperte compie ancora un gesto antico. Non importa come si chiama e non tutti i giorni ha voglia di rispondere alle nostre domande, ciò che importa è che ancora oggi una volta l’anno torna alla propria piazzola e, come se fosse un rito, fa il carbone. Le sue mani si muovono mentre ce lo racconta, imitano i movimenti che servono realmente, disegnano la sagoma della carbonaia e quasi ci convinciamo di esserle di fronte mentre lei, fumante, trasforma rami di castagno e quercia in pezzi di carbone. Poco dopo apriamo un sacco e li possiamo prendere nelle nostre mani, curiose ma non così sapienti. Rimarranno delle impronte al contrario: quelle del carbone sulle nostre mani e non viceversa.
Siamo al tramonto e la nostra giornata di ri-scoperta ci porta a quell’antico podere di San Quirico da cui è nata la storia, singolare ed affascinante, del Ciocco. Qualcosa che sa di sogno in divenire in una terra operosa.
Mentre ci accingiamo a tornare a casa riguardiamo le fotografie scattate durante il giorno ed ecco spuntare qualcosa che era passato quasi inosservato: gli alveari. Già, quelle “casine” che ospitano le operosissime api. Se siano felici davvero non lo so, ma a camminare per queste terre l’impressione è che siano abitate da gente operosa e felice. Questo riempie, oltre ogni limite, il cuore di chi le percorra, magari a piedi come abbiamo fatto noi.
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* Non sono certo nuovo in questi territori che ho frequentato per motivi personali e professionali in molte occasioni e per molti anni, ma ciò che c’è di nuovo è il punto di vista. Come noto, cambiare il punto di vista porta sempre a scoprire ciò che credevamo di conoscere… e così è stato!