Today is the Day of Memory. Seventy years ago, soldiers from the Red Army broke down the gates of Auschwitz concentration camp to liberate it once and for all, and they discovered the unimaginable. Today, we are accustomed to seeing the images that were taken after that liberation: men, women, and children reduced to skeletons, with empty eyes, more bones than skin. The large mass graves with men and women tangled up with one another in a terrible human web.
Today, we know what happened, but back then, we didn’t. Or rather, it was known that thousands of Jews had “disappeared” inside those camps from whose chimneys thick smoke could be seen even from miles away, but nothing more. Those Russian soldiers, who had seen in five years of war scenes that made one’s hair stand on end, couldn’t have imagined what they would see.
Many were shocked to the point of committing suicide. In Dachau concentration camp, the reaction of the American liberators of the 7th Army, 45th Division was to massacre all the remaining Nazis. Blood for blood.
Yakov Vincenko, a simple soldier of the Red Army, among the first to open the gates of Auschwitz, remembered a few years ago: “Even we who saw it couldn’t believe it. I hoped for years to be able to forget, but then I realized that would have been like being an accomplice, guilty. So now I remember, even if I haven’t been able to understand yet.”
Yakov couldn’t understand how in less than five years in those camps, over 3 million Jews (who between those shot and killed in ghettos became about 6 million), 3.3 million Soviet prisoners of war (even the Slavs fell victim to the policy of extermination), 1 million political opponents, 500,000 Roma gypsies, about 9,000 homosexuals, 2,250 Jehovah’s Witnesses, in addition to 270,000 deaths among the disabled and mentally ill.
Yakov probably didn’t know that the policy of extermination in the 20th century didn’t begin with Auschwitz: it is enough to bring to mind the genocide of the Armenians (on the centenary of which we remember) of which Hitler said: “who speaks today of the genocide of the Armenians?” to underline the oblivion that had fallen on that tragedy.
And, certainly, Yakov didn’t know that the experience of the “policy of extermination” wouldn’t end with Auschwitz: there would be victims of the gulags, the class cleansing of the Khmer Rouge in Cambodia, ethnic cleansings in Yugoslavia and Rwanda, the gas used by Saddam Hussein against the Kurds, defined as “a people that doesn’t exist” and many other tragedies up to our days with Christians persecuted in various latitudes of the planet.
A story as old as the world. Still massacres upon massacres. Blood for blood.
Does man really learn nothing from these tragedies? The question arises spontaneously as memory fades. This is the most serious thing: the loss of memory that gives way to those who want it to happen, to the deniers of the case, to the “gendarmes of memory.”
That’s why fifteen years ago the Day of Memory was instituted, and the day of the liberation of the Polish camp was chosen.
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
Oggi è il Giorno della Memoria. Settanta anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbattevano le porte del campo di Auschwitz per liberarlo, una volta per tutte e scoprivano l’inimmaginabile. Oggi siamo abituati a vedere le immagini che furono scattate dopo quella Liberazione: uomini, donne, bambini, ridotti a scheletri, gli occhi vuoti, più ossa che pelle. Le grandi fosse comuni con uomini donne aggrovigliati l’uno su l’altro in una terribile ragnatela umana.
Oggi sappiamo, all’epoca no. O meglio si sapeva che migliaia di ebrei erano “spariti” dentro quei campi dalle cui ciminiere usciva un fumo denso che si vedeva anche a chilometri di distanza, ma niente di più. Quei soldati russi che ne avevano viste in cinque anni di guerra di scene da far raccapricciare la pelle, non potevano però immaginarsi ciò che avrebbero visto.
Molti ne rimasero sconvolti, sino al gesto del suicidio. Nel campo di Dachau la reazione dei liberatori americani della VII Armata della 45° Divisione fu quella di massacrare tutti i nazisti rimasti. Sangue su sangue.
Yakov Vincenko un soldato semplice dell’Armata rossa, tra i primi ad aprire i cancelli di Auschwitz, ricordava qualche anno fa: “Nemmeno noi che abbiamo visto ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare, poi ho capito che sarebbe stato da complice, da colpevole. Così adesso ricordo, anche se non sono riuscito ancora a comprendere”.
Yakov non comprendeva come in meno di cinque anni in quei campi abbiano trovato la morte oltre 3 milioni di ebrei (che tra fucilati e morti nei ghetti diventano circa 6 milioni), 3.300.000 prigionieri di guerra sovietici (anche sugli slavi piomba la politica di annientamento), 1 milione di oppositori politici, 500.000 zingari Rom, circa 9.000 omosessuali, 2.250 testimoni di Geova oltre a 270.000 morti tra disabili e malati di mente.
Yakov forse, non sapeva che la politica dello sterminio nel Novecento non era cominciata certo con Auschwitz: basti portare alla memoria il genocidio degli armeni (di cui ricorre il centenario) di cui Hitler diceva: “chi parla ancora oggi del genocidio degli armeni?” per sottolineare l’oblio che era caduto su tale tragedia.
E, sicuramente, non sapeva Yakov che l’esperienza della “politica dello sterminio” non sarebbe finita con Auschwitz: verranno le vittime dei gulag, la pulizia di classe dei Khmer rossi in Cambogia, le pulizie etniche in Jugoslavia e in Rwanda, i gas di Saddam Hussein contro i curdi, definiti “popolo che non esiste” e tante altre tragedie sino a giungere ai nostri giorni con i cristiani perseguitati a varie latitudini del pianeta.
Storia vecchia come il mondo. Ancora stragi su stragi. Sangue su sangue.
Veramente l’uomo non impara nulla da queste tragedie? La domanda sorge spontanea mentre il ricordo si affievolisce. Questa è la cosa più grave: la perdita di memoria che da spazio a chi vuole che ciò avvenga, ai negazionisti del caso, ai “gendarmi della memoria”.
Per questo quindici anni fa è stato istituito il Giorno della Memoria ed è stato scelto proprio il giorno della liberazione del campo polacco.
Però, ogni anno che passa è sempre più difficile fare memoria: i sopravvissuti all’Olocausto sono ogni giorno sempre meno e gli adolescenti che di questa tragedia non sanno niente sempre di più.
Certo in questi anni molto è stato fatto. Lo scorso anno Gabriele Nissim, presidente di “Gariwo-La foresta dei Giusti” in un bell’editoriale sul sito della sua associazione (con sede a Milano) ha affermato: “L’Italia ha molti difetti, ma non c’è un Paese d’Europa dove il giorno della Shoah sia così sentito”.
Non c’è amministrazione comunale (piccola o grande), infatti, che non organizzi una ricorrenza pubblica per il 27 gennaio; non c’è scuola (di ogni grado) dove non si propongano incontri e letture, stesso discorso per giornali, televisioni e testate online.
Un modello, quello italiano, da seguire perché, come fa notare Nissim, nel resto dell’Europa il panorama è molto diverso. Ad esempio in Francia, dove “la giornata viene vista come un’imposizione degli ebrei che guarderebbero solo a se stessi”.
In Ungheria, Ucraina, nei paesi Baltici invece la questione è ancora scottante e “l’antisemitismo è ancora all’ordine del giorno, perché poco è stato fatto per affrontare, come scriveva il grande politologo ungherese Itsvan Bibo, le responsabilità di chi ha collaborato con i nazisti e affrontare così una purificazione morale di quelle nazioni”.
Quindi, al di là dei polemicisti di professione e dei disfattisti di sempre, almeno questa volta abbiamo fatto bene.
Però, come sempre, non bisogna crogiolarsi sugli allori, non bisogna entrare nella monotonia della routine. Per far questo bisogna, come consiglia Nissim, “produrre una memoria viva e legata ai tempi in cui viviamo”.
In un interessante articolo su “Avvenire” di due anni fa Giorgio Pressburger si chiedeva: “A quali condizioni ha senso il giorno della memoria”.
Partendo dal presupposto che sostanzialmente non è servito “agli esseri umani ricordare eventi luttuosi per evitare il ripetersi di questi eventi”, anzi, con l’andare del tempo la ferocia “è aumentata, la capacità di uccidere o di torturare è diventata sempre più diffusa e a portata di tutti” ma che altrettanto non è servito “far finta che non sia successo nulla”, senza rassegnarsi all’idea che “la propensione alla violenza, alla ferocia, all’assassinio è ineliminabile, la civiltà non avanzerà mai, nel diventare meno crudele, meno violenta, meno egoista” ricordando che “non riconoscerne la realtà e andare avanti alla cieca è altrettanto vano e illusorio” si chiede “cosa si può fare per impedire che in questo modo tutto finisca in retorica, in vuoti cerimoniali consumati in un giorno, per continuare, nei rimanenti 364 giorni dell’anno a perpetrare gli stessi delitti, gli stessi abusi e le stesse violenze appena ricordati?”.
Per Pressburger quello della Memoria è “il giorno delle tante, infinite domande quello che noi chiamiamo il Giorno della Memoria. Come è potuto accadere quello che ricordiamo? E come dobbiamo ricordarlo?”.
“Dobbiamo trovare la strada che ci conduca verso la liberazione da questa schiavitù, o sarà l’intera umanità, non un singolo popolo, a scomparire”: questo il ragionamento che ci lascia alla fine del suo intervento dopo aver aperto tante (e giuste) domande su cui riflettere ma non il prossimo 27 gennaio ma bensì sin da subito per cercare una risposta sennò è proprio vero che c’è il rischio che nei prossimi anni tutto questo lavoro di Memoria vada perduto. Non possiamo permettercelo.
Lo dobbiamo a quei milioni di persone che ci hanno preceduti e sono finiti in una fossa comune o fumo nel vento. Ricordarli, farli tornare in vita, sentirli vicini è un dovere.
Come è un dovere ricordare chi disse no e con gesti piccoli e grandi (ma tutti importanti) cercò di fermare questa strage. Come padre Massimiliano Kolbe che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia, destinato al bunker della fame, come Giovanni Palatucci, il poliziotto che per aver salvato migliaia di ebrei morì a pochi giorni della Liberazione a Dachau, come Fratel Arturo Paoli, il centenario piccolo fratello di Gesù, che salvò nel 1944 Zvi Yacov Gerstel e di sua moglie; come Gino Bartali (a cui Barga a dedicato una via) che pedalava per salvare “i fratelli maggiori” o come (ma ce ne sarebbero tanti di esempi, per fortuna) Giorgio Perlasca, il commerciante italiano fascista che fingendosi console ebreo salvò più di cinquemila ebrei.
Suo figlio Franco che ne cura la memoria con tante belle iniziative ci a confessato: “Nel solco del testamento spirituale che Perlasca ha lasciato a noi tutti, ritengo particolarmente importante questa sua frase: “Vorrei che i giovani si interessassero a questa storia unicamente per pensare oltre a quello che è successo a quello che potrebbe succedere e sapere opporsi, eventualmente, a violenze del genere”.
Una frase assolutamente attuale: se tutti conosciamo la Storia riusciamo anche a crearci degli anticorpi di rifiuto dell’odio, della violenza e dell’intolleranza. Prima sentimenti personali che poi dovranno diventare momenti collettivi di rifiuto dell’odio, della violenza e dell’intolleranza”.
Article by Nazareno Giusti