Colonnello, di cosa ha parlato nella sua lezione?
“Dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, partendo da un’incredibile coincidenza temporale…”
Cioè?
“Il 28 giugno non è una data casuale: è la ricorrenza della battaglia di Kosovo Polje del 1398, battaglia sacra contro i Turchi dell’Impero Ottomano conclusasi con una sconfitta per i Serbi. Quindi, quel giorno del 1914 era stato scelto come una provocazione, come un giorno di riscatto. Poi, nel mio intervento, ho messo in luce gli aspetti sconosciuti legati all’incredibile serie di coincidenze, più o meno fortuite, che hanno permesso la riuscita dell’attentato, e gli aspetti oplologici”.
Tipo?
“Quel giorno erano pronti sette terroristi. La coppia era già scampata ad un primo attentato sempre la stessa mattina, effettuato da un secondo terrorista (il primo aveva avuto paura) con il lancio di una potente bomba a mano, che era rimbalzata sull’auto imperiale per finire sulla vettura che seguiva e aveva ferito altre persone; quindi gli attentatori rimanenti si erano dileguati e avevano di fatto rinunciato a continuare i tentativi di omicidio. Gavrilo Princip, il quinto attentatore nell’ordine, sfiduciato, aveva quindi raggiunto una caffetteria di fronte alla sua posizione (Il Moritz), si era bevuto un paio di grappe Slivovitz per la delusione (e pensare che era astemio e aveva fatto voto di rinuncia agli alcolici come tutti i terroristi)”.
E poi?
“A seguito del mancato attentato era stato deciso di cambiare il percorso, e quindi per una altra coincidenza, erano ripassati, fermandosi per una manovra errata proprio davanti al caffè dove Gavrilo stava bevendo. In quel preciso momento uscì fuori e si trovò l’auto ferma davanti a lui, in fase di manovra di retromarcia e… scoperta (poche ore prima aveva la cappotte montata). A quel punto, senza pensarci, estrasse una pistola di medio calibro (una Browing mod. 1910 cal 9x 17) e fece fuoco due volte, uccidendo la contessa prima, e l’Arciduca subito dopo. Due colpi fortunati, incredibilmente mortali. L’attentatore ebbe la possibilità di sparare perché proprio il lato destro dell’auto era completamente scoperto e senza protezione, in quanto dopo l’attentato con la bomba, il Conte Von Harrach (peraltro proprietario della potente autovettura Gräf und Stift 28/32“Double Phanthom”) si era posizionato in piedi sul predellino a fianco dell’Arciduca, ma sul lato sinistro, che si pensava fosse quello più esposto e quindi pericoloso”.
Ci furono tentativi di salvare la vita dell’arciduca?
“L’Arciduca indossava una pesante blusa antiproiettile, fino al collo! Ma non gli servì. Infatti, il proiettile colpì la carotide tranciando la vena giugulare e provocando una copiosa emorragia che in pochi minuti dissanguò Francesco Ferdinando: pochi centimetri di collo scoperto, un solo colpo. Proprio questo giubbetto, molto pesante, rigido e difficoltoso da indossare, rese impossibile qualsiasi tentativo di soccorso per cercare di fermare l’emorragia in quanto il medico intervenuto non riuscì ad aprirlo. Infatti, la blusa (conservata oggi al Museo della Guerra di Vienna) presenta due grandi tagli sulla manica sinistra e sul petto , dovuti ad un goffo quanto inefficace tentativo di taglio con una baionetta”.
L’arma del delitto che fine fece?
“La pistola che sparò non si è più ritrovata. Inizialmente, assieme ad altre tre sequestrate agli altri attentatori, furono consegnate dalla polizia bosniaca ai figli eredi, che le vollero affidare ad un padre gesuita che le portò in giro per la Bosnia e in Austria per farle vedere (sotto pagamento). Questa cosa non piacque ai figli che lo pregarono di smetterla. Il religioso, allora, nascose le pistole in un mobile di una chiesa dell’ordine a Vienna dove, nel 2004, sono ricomparse, per essere consegnate al Museo. Ma solo tre…quella che ha sparato è finita, probabilmente, nelle mani di qualche collezionista”.
Visto che la sua lezione si è tenuta l’8 marzo, ha ritenuto di fare una dedica particolare…
“Sì, ho voluto ricordare Sofia Chotek, la moglie della Arciduca Francesco Ferdinando. Una bella figura di donna non nobile di nascita ma nobile nell’animo. Lo zio, l’imperatore Francesco Giuseppe, per questa sua scelta sentimentale (poco comune all’epoca), escluse Ferdinando (e con lui i suoi figli) dalla linea di successione! Ma l’amore tra i due fu così forte e intenso che andarono oltre le questioni regali e decisero di rimanere insieme fino alla loro morte. Inoltre, quel giorno era il loro quattordicesimo anniversario di matrimonio e i coniugi, dopo la visita ufficiale, si sarebbero recapiti nella località vacanziera di Ilidze”.
Sarajevo, come lei ha fatto notare, è stato un luogo fondamentale del “Secolo breve”…
“Sì, una città dove inizia e termina il XX secolo, il cuore sanguinante della Mitteleuropa. Non a caso Francois Mitterrand, il vecchio presidente francese, cercherà, proprio il 28 giugno 1992, con una visita improvvisa e molto rischiosa, un tentativo di trovare una via di risoluzione del conflitto balcanico. Devo dire, poi, che è stato emozionante parlare di questi argomenti davanti ad un consesso così qualificato: studenti e docenti che maneggiano questi argomenti da mattina a sera, molto attenti, che prendevano continuamente appunti; erano veramente interessati al racconto”.
Lei non è nuovo a queste apprezzate conferenze, nel giugno scorso ha tenuto numerose conferenze sul tema de “Il soldato italiano nella Grande Guerra”. L’Italia entrò in guerra nel maggio del 1915, a quel momento quale era la situazione delle forze armate italiane?
“Assolutamente insufficiente per affrontare un conflitto di quelle dimensioni: eravamo usciti da poco dalla guerra di Libia, le nostre risorse logistiche erano scarse, avevamo una dottrina operativa datata e non in linea con il prevedibile sviluppo del motore e dell’aviazione, il parco mitragliatrici era ridicolo (parliamo di seicento armi su tutta la linea del fronte!), le artiglierie (tremila pezzi!) non idonee e non in numero adeguato. All’inizio vennero addirittura smontati dei pezzi navali e, con molta fatica, portati in prima linea…una roba quasi kafkiana! E poi non avevamo elmetti, infatti acquistammo l’Adrian modello 15 dai francesi! Insomma… una situazione pessima”.
La prima guerra mondiale da molti è considerata “la quarta guerra d’indipendenza”, come mai?
“Il concetto era che questa guerra completava un ciclo di riunificazione storica e di chiusura del processo di unità nazionale iniziato con la prima guerra di indipendenza. La circostanza fu citata dal Primo Ministro Antonio Salandra nel discorso che annunciava l’ingresso dell’Italia in guerra, attribuendo alla generazione alle armi il compito di completare l’unificazione nazionale! Si puntava, infatti, ad annettere le “terre irredente”: Trento, Trieste, la Venezia Giulia, alcune zone della Dalmazia, che erano appunto terre italofone ma non ancora facenti parte del stato italiano. Questo concetto poi decadde nel dopoguerra e non sarà ripreso dal fascismo…”
Perché?
“Perché il concetto di “vittoria mutilata” lo prese in mano Gabriele D’Annunzio, con Fiume, gli Arditi, i reducisti. Era un concetto forte, di aggregazione popolare, e il fascismo nacque e cavalcò, inizialmente, questi sentimenti. Ma il Vate era “ingombrante” per Mussolini: rischiava di metterlo in secondo piano, di oscurare la sua personalità; era uno scontro di forti personaggi. Come ebbe a dire il Duce: “D’Annunzio è come un dente cariato: o lo estrai o lo ricopri d’oro”. Preferì la seconda soluzione lasciando decadere lentamente con le sue imprese e le sue aspirazioni e, quindi, il sentimento irredentista il Vate”.
Prima della guerra, quanto durava la leva e come si svolgeva?
“La leva nel Regio Esercito Italiano, riformata nel 1911, durava 24 mesi; prima addirittura 5 anni. La “naja” (termine che proviene dal vocabolo veneto “tenaja”, intesa come morsa, blocco della vita) prevedeva l’addestramento di base per “imitazione”: affiancavano, cioè, ad un plotone di coscritti un omologo reparto di “anziani”, che avrebbero dovuto tramandargli il sapere e le conoscenze militari essenziali per iniziare a fare il soldato. Era il cosiddetto sistema per “imitazione”, funzionava male. Poi, c’erano le scuole di specializzazione che addestravano e qualificavano i soldati secondo gli incarichi: cavalleria, artiglieria eccetera”.
Durante il conflitto, invece, quanto durava l’addestramento?
“L’addestramento durava poco, dopo un periodo iniziale contenuto si andava al reparto finendo spesso direttamente in prima linea. Durante il periodo addestrativo, si curava sopratutto la resistenza fisica con un programma di marce progressive e con carico crescente, e poi il tiro con l’arma individuale il fucile modello ’91”.
Un discorso a parte lo merita questo fucile…
“Eh sì. Il 91 non è “un” fucile ma “il” fucile. Quello che hanno stretto tra le mani tutti i soldati nella “Grande Guerra” e non solo: fu distribuito, poi, anche, a Carabinieri e Polizia. Quasi 4 kg di peso, in noce o faggio per 128 cm di lunghezza, 6 colpi calibro 6, 5. Studiato dal capo tecnico principale della Fabbrica d’Armi di Torino, Salvatore Carcano, l’arma fu adottata già dalla guerra di Libia, riscuotendo successi e apprezzamenti. Inoltre, piccola nota locale, le munizioni (oltre che a Campotizzoro, al Pirotecnico di Capua, di Bologna, a Colleferro di Roma), venivano fabbricate presso la Società Metallurgica Italiana di Fornaci di Barga”.
Come era la vita in trincea?
“Era veramente dura. La mortalità era elevata, superiore al 10 % (che, confrontata con quella della seconda guerra mondiale del 4/5 %, rende bene l’idea delle dimensioni della tragedia). Alle perdite dovute agli assalti o ai colpi di mitragliatrice si sommavano le perdite causate dai cecchini e dall’uso dei gas, anche questa una tragica novità della prima guerra mondiale. Le truppe italiane, inoltre, a differenza delle altre nazioni alternavano molto di rado la permanenza in trincea con i periodi di riposo o di retrovie… sarà solo con la sostituzione di Cadorna con Diaz, che verranno migliorati i periodi di riposo, di alternanza, con un poco di licenze che incideranno moltissimo sul benessere psicofisico dei soldati, andando a diminuire il cosiddetto disturbo post-traumatico da stress che tanto colpì i nostri soldati”.
Divise: gli italiani ebbero per tutta la durata del conflitto lo stesso tipo di divisa o cambiarono?
“La storia dell’uniforme del soldato italiano è semplice e allo stesso tempo sconcertante! La divisa cosiddetta “grigio verde” (modello 1907) venne sperimentata a cura di un civile, il signor Luigi Brioschi (presidente del Cai di Milano), che, acuto analista, rimase sconvolto dai racconti e dal numero di vittime nel teatro russo-giapponese, causate dalla rapida introduzione della nuova polvere senza fumo: la “solenite” per fucili, che praticamente aumentava notevolmente la visibilità media sul campo di battaglia. Prima le polveri da sparo producevano moltissimo fumo e dopo pochi minuti una forte nebbia gravava sul campo di battaglia impedendo la visibilità diretta e, quindi, questo giustificava le uniformi multicolori e molto visibili. Ma l’avvento della polvere infume annullava questa esigenza, anzi; il Brioschi quindi finanziò, a sue spese, la realizzazione di 40 nuove uniformi e, con la complicità di due ufficiali amici del battaglione Morbegno del 5° Reggimento Alpini, condusse una sperimentazione: a 600 metri con le vecchie uniformi gli uomini erano visibilissimi (e quindi facili bersagli) mentre, gli stessi uomini, con l’uniforme grigio-verde, non erano visibili prima di 150 metri: una bella differenza! Il risultato era eccezionale e lo Stato Maggiore si convinse e adottò il nuovo indumento, che rimarrà in linea fino al 1933”.
Com’era questa nuova divisa?
“La nuova divisa aveva numerosi accorgimenti: giubba larga di panno di lana con i bottoni interni per non impigliarsi, colletto chiuso, mostrine in panno ai lati, gradi sulle maniche, salsicciotti di rinforzo sulle spalline per appoggiare il fucile (qualcuno ventilava l’ipotesi che questi due salsicciotti sulle spalline, servissero per il recupero del soldato, qualora ferito, ad opera di una coppia di cani infermieri appositamente addestrati, che azzannavano questi rinforzi per trascinare il ferito fino al bordo della trincea, senza far esporre dei portaferiti che sarebbero stati un bersaglio facile). C’erano, poi, comode tasche ampie interne, pantaloni a sbuffo con le fasce mollettiere o i gambali e gli scarponi chiodati. Berretto a tubo e una mantellina per la pioggia completava la dotazione. Tutto sommato, comoda a sufficienza, calda lo stretto necessario e, soprattutto, pratica”.
Insomma, colonnello, la prima guerra mondiale è stata una guerra antica e allo stesso tempo moderna, come mai?
“La guerra iniziò con schemi antichi, uniformi multicolore, armi datate come il Vetterli (addirittura del 1870!), un esercito di manovra appiedato, senza motorizzazione, con artiglierie someggiate, senza radio (eppure siamo la patria di Marconi, che l’aveva inventata nel 1896!), ma chiuse con un parco aeronautico di tutto livello, con la creazione degli Arditi (truppe d’assalto speciali e determinanti), carri armati, motosiluranti (i Mas), mezzi di comunicazione efficaci e senza fili, mitragliatrici, bombarde, siluri torpedini. Negli anni del conflitto si sviluppò la sanità militare, la guerra produsse ricerca e, quindi, risultati a volte non del tutto negativi. Nacquero, poi, tra l’altro, le corazze Farina, antesignane dei giubbetti antiproiettile di ormai generalizzata diffusione nelle operazioni militari. Insomma, la Grande Guerra rispecchia, a pieno (e ben rappresenta), il “Secolo breve” nel quale all’inizio si viaggiava con la carrozza trainata dai cavalli e alla fine si va nello spazio”.