Roberto Giovannini realizza documentari da una vita. Aveva diciotto anni quando, nel 1961, esordì con il primo cortometraggio “L’addio”, secondo premio al festival di Torino. Sono seguiti un elenco lunghissimo di lavori, molti dei quali realizzati in Africa, continente che Giovannini ha girato in lungo e in largo, mettendo a repentaglio la sua vita. Da alcuni anni sta portando avanti un progetto di riscoperta degli antichi mestieri. Sabato, nella sala conferenze della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, sarà presentato il suo ultimo lavoro: “Con le mani e con il cuore”.
Giovannini, di cosa tratta questo lavoro?
È una panoramica, un compendio su ventitré artigiani che, con costanza e passione, stanno portando avanti lavori desueti, molti dei quali rischiano di essere abbandonati.
C’è qualche giovane tra questi?
Sì, marito e moglie che fanno i copri fiaschi a Bargiano, uno che fa le granate di saggina a Porcari e un altro giovane che impaglia sedie. Questi ultimi due si sono avvicinati a questi lavori grazie a un insegnante di applicazioni tecniche lungimirante, il professor Giancarlo Caselli, che faceva venire gli artigiani a fare lezione.
httpv://www.youtube.com/watch?v=rOeOf2vidiE&t=4s
Tra le tante storie che ha raccolto, ce n’è una che le è rimasta più impressa?
Quella dell’arrotino Umberto Antichi, oggi ottantenne, che mi ha raccontato di quando, a nove anni, è partito da solo, dalla Garfagnana, per venire a Lucca, con una bicicletta già adatta per arrotare fattagli dal padre. Tra le prime esperienze che ha avuto una è stata molto… particolare! Si era fermato a Fornaci di Barga ad arrotare da un macellaio, il quale, accortosi della sua inesperienza, per burla, lo rinchiuse nella ghiacciaia!
Da chi è stato sostenuto questo documentario?
Tutto è partito dal Museo del Castagno di Colognora, nel comune di Pescaglia, che, una volta l’anno, realizza la giornata dedicata agli antichi mestieri. Questo è il quarto lavoro che facciamo assieme. Il primo è stato “Era il pane dei poveri”, poi sono seguiti “A ferro e fuoco” e “Nero come il carbone”.
Questi documentari sono andati tutti in onda sulla Rai. Un rapporto, quello con la televisione di Stato, iniziato negli anni Novanta…
Sì, nel 1994, nella trasmissione “Geo,” andò in onda “I Pigmei Bambuti”. Per realizzarlo avevo fatto una spedizione nelle foreste dell’Alto Zaire, passando dal Rwanda in guerra. Il dottor Villa, responsabile Rai, mi disse: “signor Giovannini, era tanto tempo che non vedevo un prodotto italiano così ben fatto”.
Ora a cosa sta lavorando?
Sto ultimando “Le caprette di Monica” su una donna di Livorno che ha deciso di venire a vivere sulle colline di Palleggio, nella Val di Lima, per fare la pastora.
Un suo documentario è stato girato anche a Barga…
Sì, si tratta de “La Contessa Capoana”. Non è ambientato a Barga ma girammo nella cittadina medicea perché certi scorci facevano al caso nostro. All’epoca, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, ero in contatto con un frate domenicano che stava nella chiesa di San Romano di Lucca e in biblioteca, aveva trovato un manoscritto in cui si sosteneva che, al tempo della morte del Conte Ugolino della Gheradesca nella Torre della Muda, la moglie scappò con un figlio e si rifugiò a Lucca proprio nel convento di San Romano.
Una storia molto suggestiva. Feci interpretare il ruolo della Contessa a quella che poi divenne mia moglie e i vestiti li realizzò mia madre, le divise delle guardie mi furono invece gentilmente fornite dal gruppo storico del comune di Lucca.
Girammo all’alba anche in Piazza dei Miracoli.
A Barga chiedemmo aiuto ai vigili perché, all’epoca, nel centro storico giravano ancora le auto.