Bruno Cordati 1890 - 1979

E' molto difficile per me scrivere di mio padre. L'amore e la lunga consuetudine confondono: rimangono cose che la memoria sente come fondamentali; non ne vengono in mente altre, magari le più importanti, alle quali l'assuefazione ha tolto significato. Inoltre, di un lavoro che è durato ininterrottamente dalla prima guerra mondiale agli ultimi anni settanta, tendo a ricordare meglio gli ultimi decenni: non solo perché più vicini, ma anche perché una maggior libertà dalla famiglia mi ha consentito di riannodare con mio padre rapporti più stretti e prolungati.

Così da qui e da ora, com'è il suo verso naturale, si avvia e si forma il ricordo, strettamente legato a Barga dove si era ritirato gli ultimi trenta anni della sua vita. Questo paese è sempre stato un punto di riferimento del suo pensiero; incanalava il suo lavoro, gli dava misura e ritmo; era un punto di vista fermo, familiare, comprensibile. Questo paese: e nel paese, questa casa dove ora si tiene la mostra. Qui aveva dapprima solo le stanze dello studio, finché non poté averla, restaurarla, farne il luogo di raccolta dei suoi quadri.

Lo dice bene Ernesto De Martino, che "alla base della vita culturale del nostro tempo sta l'esigenza di ricordare una patria - per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l'immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l'opera di scienza e di poesia riplasma in voce universale". Continuamente tornava alla memoria di mio padre quella Barga piccola e chiusa della sua infanzia, grigia di pietra, con infissi alle mura dei suoi nobili palazzi gli anelli di ferro per attaccare i muli; una vita quotidiana dal ritmo lento, un po' superbo e malinconico, che è la musica di tanti suoi quadri.

Così la sua vita tendeva all'immobilità, al radicarsi sempre più profondamente, al guardare sempre più da vicino, sempre più nei particolari; vorrei esser nato platano, diceva; star fermo, allargarmi sempre più nelle radici. Diceva che non occorre cercare una veduta storica o panoramica per trovare il bello: basta sradicare un cespuglietto d'erba, rovesciarlo, studiare il movimento delle radici, il loro rapporto con la terra, con i piccoli sassi che esse abbrancano. Gli piaceva molto quell'aneddoto attribuito a Gonciarov, quando fu chiamato sul ponte dal capitano della nave, cui sembrava che lo spettacolo grandioso della tempesta fosse particolarmente adatto a un artista; Gonciarov guardò in giro corrucciato, brontolò: un gran disordine! e se ne tornò in cabina. Sempre infastidiva mio padre lo sforzo visibile nel lavoro, il gonfiarsi, l'ansimare verso il risultato; sentiva che la forza è dentro, e da dentro indica quel minimo che occorre per arrivare, quello scarto delicato, quel rapporto che fa sì che il quadro sia "a posto".

Si sviluppava così nel suo lavoro quella che lui interpretava come una tendenza alla semplificazione. Non lo interessavano più i suoi lavori del periodo pienamente figurativo degli anni venti e trenta, dipinti in parte a Barga, in parte in Veneto, a Budapest, a Parigi. Nemmeno lo interessava più il gruppo dei quadri dipinti in Bulgaria, dove era stato nei primi anni quaranta, e dove era stato attratto dai vividi colori dei villaggi turchi e zingari, dalla bellezza solenne delle donne zingare. Ne era nato il piacere - che appartiene solo a questo periodo - per un colore e una pasta ricchi e pieni, luminosi, che si era allargato anche a certi nudi e a certi paesaggi di questo stesso periodo e luogo.

Adesso, tornato a Barga per lo scoppio della guerra, e deciso a non muoversi più, avviava quel periodo di intenso raccoglimento che doveva concludersi alla sua morte. La sua riflessione sulla pittura prendeva una strada tutta diversa. Il figurativo spaziato, pieno di prospettiva, illusionistico, cedeva via via il passo a un lavoro i cui eventi si svolgevano tutti alla superficie del quadro, la cui materia e soggetto era il colore stesso; che non richiedeva più certo l'osservazione di modelli e paesaggi, ma un ripensamento profondo di forme, di rapporti in equilibrio delicato e difficile.

Diceva: voglio avere qui tutto sulla superficie della tela. Ripensando a grandi tratti allo sviluppo del suo lavoro, si riconosce che le due guerre mondiali debbono aver costituito due cesure fondamentali della sua vita. Della prima parlava con riserbo, con quel tono basso che gli era caratteristico. Erano stati quattro anni di trincea, e una medaglia al valore presa sul Piave; gli ultimi due anni al comando di una formazione speciale di ex carcerati, coi quali si era inteso benissimo. Parlava della pioggia, la cosa più tremenda, diceva, della guerra in trincea: all'inizio cercavi di ripararti in qualche modo, in quelle trincee quasi scoperte, con teli impermeabili o altro; e cominciavi a sentire l'acqua che ti si infilava nel colletto; quando eri fradicio, e ormai ogni precauzione era inutile, era quasi una liberazione, non ci pensavi più. Ma anche i topi erano una piaga, e bisognava mettere di guardia l'attendente con un bastone, per poter vincere il ribrezzo e poter dormire. Per il resto, qualche rapida descrizione: il soldato colpito al cervello, che attacca a gran voce l'avvio di un ritornello - Affacciati alla finestra... - prima di cadere fulminato; o il colonnello venuto in visita alle trincee che dopo aver camminato a lungo chino per ripararsi, si alza con una mossa naturale per massaggiarsi la schiena indolenzita e viene preso alla testa; o le lunghe conversazioni con gli austriaci durante le ore di pausa. Una cosa sola ricordata con una smorfia di sofferenza: le licenze, la gente che in treno si scostava per paura dei pidocchi, la gente che faceva la solita vita fin dalle retrovie, e più ancora verso l'interno.

Due anni, verso il trenta, passati a Gorizia, furono l'occasione di un riconoscimento minuto del Carso, del San Michele; si ripercorrevano i camminamenti e le trincee; si vedevano i ragazzi ancora alla ricerca del ferro interrato. Ne nacquero molti disegni, e un pastello dei migliori.

Ma nel decennio che seguì la guerra fu una vera esplosione di lavoro. Nei grandi quadri domina come tema la figura umana, una umanità assorta, colta in un momento di riposo dalla fatica quotidiana. Pochi paesaggi, e soprattutto, cosa proprio sua caratteristica, mai panoramici: qualche tratto di tetti, di grondaie barghigiane, col gusto di sottolineare l'andamento geometrico delle linee che convergono, divergono, cadono e si innalzano.

Tutto questo lavoro ha a parer mio un primo livello di lettura, quello che tutti coglievano e colgono con emozione, cioè l'evidenza rappresentativa e l'intenzione tematica. Ma approfondendo l'osservazione si trovano, aldilà di questo, alcuni caratteri che permarranno in seguito in lavori apparentemente diversissimi: non solo la negazione totale della rapidità e dell'abbozzo, ma come una forza di gravità per cui il quadro consiste in tutte le sue parti, e ogni forma si esprime come se portasse a compimento per suo conto tutto un processo di pensiero: un rapporto di colore tra la parete e le spalle della persona che vi si appoggia, il verso di una mano d'uomo sul tavolino di un'osteria, un profilo che si perde nel sonno, vi si cancella e quasi si annulla, una donna distesa in una calma composizione orizzontale: e cogliamo la lucentezza della pelle tesa sulle ginocchia abbandonate, il braccio che si allunga in primo piano quasi a commentare la linea della bella persona.

Questo senso profondo della composizione, la comprensione della autonoma importanza di ogni minimo fenomeno è una delle direttrici del quadro; e fa contrasto con l'intenzione compositiva più evidente, che si accompagna al tema e lo sottolinea. Questa interna divaricazione dà ai quadri un loro peso peculiare, un modo calmo e riposato di occupare lo spazio. A proposito di questo equilibrio mi viene alla mente una frase di Kandinskij: "naturalmente ogni opera d'arte è quieta, solo che ai contemporanei riesce difficile trovare quest'intima quiete (nobiltà). Ogni opera seria risuona interiormente con le parole, tranquillamente e nobilmente proferite: sono qui ".

Con Kandinskij però mio padre polemizzò una intera estate, leggendo Lo spirituale nell'arte. Già il titolo non gli piaceva, con quel termine spirituale che lo metteva in sospetto. Mentre condivideva tutte le parti tecniche, di mestiere, gli sembrava pericolosa l'impostazione del pensiero. Ad esempio, là dove Kandinskij parla del rischio, per un pittore, di privarsi della possibilità di determinare una vibrazione interiore con un oggetto plasticamente rappresentato, mio padre contestava che questo rischio esistesse: noi viviamo in mezzo a queste forme, di queste forme e fatta la nostra capacità di vedere, cosa possiamo rappresentare se non questo? La vibrazione in chi guarda proviene appunto dal riconoscimento della sua propria esperienza visiva.

Era sua caratteristica ritrarsi da ogni affermazione che presumesse una qualche sicura conoscenza. Per questo più che i critici gli piaceva leggere i narratori e i poeti. Aveva un modo particolare di leggere, un dialogo continuo con lo scrittore; ad esempio non diceva "guarda com'è bello qui'", ma "guarda come ha fatto bene"; lo emozionava ogni soluzione tecnica riuscita, leggeva assaporando i problemi e le soluzioni. Gli piacevano molto i narratori del novecento, Joyce, Musil, ma lo disturbava doverli leggere tradotti; perciò passava più tempo coi francesi, che poteva leggere in lingua - Flaubert, Maupassant, Proust, ma soprattutto Flaubert - e con gli italiani. Fra gli italiani, I'opera che ha letto forse più a lungo è l'Orlando Furioso; l'ultima rilettura fu lentissima, gli durò per mesi e mesi. Leggeva alla sera, quando la luce per lavorare era tramontata. Passava dalle sue stanze di studio a quelle di abitazione, si lavava a lungo le mani sporche di colore e odorose di acqua ragia, prendeva un tè, e si sedeva soddisfatto dicendo: io ho lavorato, ora vediamo come ha lavorato lui. Seguiva con particolare gioia il filone di Astolfo, ed era contento quando il personaggio rientrava nel racconto. L'unica sua pittura che nasce direttamente da un libro è proprio un piccolo quadro affollato e pieno di movimento, Astolfo che fugge a cavallo con in grembo la testa di Orrilo, mentre Orrilo decapitato lo segue a ridosso minacciando con le mani alzate.

Il modo di pensare in cui si radica questa visione dell'arte, della lettura, della cultura insomma è rilevante per capire il suo lavoro e la sua stessa concezione di vita. Secondo questo modo, ogni opera è un evento staccato e unico in sé; non si vedeva in lui traccia di un piano generale di accumulazione, per cui un quadro, un libro, una musica dovessero servire anche da tramite, o anche solo dovessero avere una funzione altra da sé: anzi, si doveva fare spazio intorno all'opera, isolarla in modo che potesse assumere tutto il rilievo che le competeva; nessun altro uso era previsto o consentito. Tutto ciò aveva lo scopo di portare l'attenzione al modo di lavorare, al come dell'esecuzione. Ne risulta un modo di avvicinarsi all'opera d'arte che io chiamerei egualitario, senza rispetto per le graduatorie e senza fiducia nell'autorità, in cui le uniche regole sono la lentezza, la cura, l'attenzione.

Così, sia per il lavoro proprio che per capire il lavoro degli altri, la ricerca di mio padre era fortemente caratterizzata; non cercava il bello, ma il serio, il ben fatto, la traccia e lo spessore della fatica quotidiana, dell'esperienza, della sapienza artigianale: di ciò che chiamava, riferendosi al proprio lavoro, tribolare. Su questo quotidiano tribolare, e solo su questo, poteva innestarsi, come un miracolo, il bello, l'arte; ciò che non viene fatto, ma viene da sé - e tutta la bravura del cosiddetto artista consiste nel vedere che è venuto, e non guastarlo. Fu molto contento, infatti, quando lesse una risposta che l'amato Manzù aveva dato a Liliana Madeo in una intervista sulla Stampa: "Nello studio ogni mattina ci vado per un mio bisogno, come bisogno e mangiare e dormire. Non ci vado mai con l'idea di fare l'opera d'arte. Se una volta pensassi questo non lavorerei mai più. Ogni giorno spero che sia la volta buona". Questa risposta esprimeva appunto la libertà di movimento che si ottiene depurandosi - o ripulendosi, come diceva volentieri, indicando così il processo di semplificazione - da rigidezze mentali e ambizioni sbagliate; una libertà che permette di avvicinarsi in modo sempre nuovo e aperto al lavoro sia proprio che altrui.

E a ogni tipo di lavoro, non solo a quello dell'arte. Anche come insegnante rifiutava termini (e intenzioni) come educare, formare, ecc. Pensava che noi possiamo insegnare a lavorare, non mai a disegnare, a scrivere, a capire l'arte: questo, se viene, viene, come il bello, per soprappiù.

La seconda guerra mondiale lo segnò in modo ben più profondo della prima. Non era più giovane e non era più responsabile solo di sé. I quadri rischiarono di andar perduti sotto i bombardamenti, e un autoritratto del periodo bulgaro ha ancora sulla fronte il segno di una grossa scheggia. La preoccupazione di sopravvivere era particolarmente angosciosa per la vecchia madre, che non riusciva a rendersi conto della situazione. Mi ricordo ancora il mio terrore mentre, dalla cantina dove mi ero calata per la botola, osservavo mio padre che vi arrivava passando per la strada lunga, tra le cannonate che fioccavano, conducendo lentamente a braccio la nonna, la quale seguitava a spiegargli che "male non fare e paura non avere".

La desolazione delle rovine e anche di certi aspetti della ricostruzione, accentuava il suo bisogno di fortificarsi nel suo paese e nella sua casa, di fissare il suo punto di vista sul moto violento che lo circondava. Questo non significava però chiusura verso l'esterno. Al contrario la radicazione, la sicurezza del punto di vista gli permettevano quella estrema libertà, quella totale disponibilità che ho cercato di descrivere. Anche la sua solitudine, completa e dichiarata, aveva dall'altra parte bisogno non solo dei pochi intensissimi affetti, ma anche della presenza, intorno, di voci e figure note. La sua passeggiata giornaliera era punteggiata di incontri, di brevi scambi di frasi, di cenni di saluto, che costituivano un accompagnamento appena percettibile ma necessario alla sua solitudine. Lo infastidiva invece in modo intollerabile qualsiasi interferenza nel suo disciplinatissimo orario di lavoro e di riposo, qualsiasi cosa che dal lavoro lo distraesse e gli creasse quelle che chiamava "tensioni inutili". Non ebbe più voglia di far mostre né di permettere che fossero fatte da altri; questo avrebbe appunto costituito un disturbo al quotidiano tribolare. Al pomeriggio, quando usciva dallo studio, per passare nelle stanze di abitazione, se nessuno doveva venire, chiudeva il portone di casa. La vastità e il numero delle stanze gli allontanavano i rumori del paese e nello stesso tempo gli permettevano di sentirli con agio e partecipazione. A volte nella grande casa si sentiva un tonfo attutito che sembrava lì e veniva invece da lontano, da uno dei palazzi della via, tutti legati nelle loro strutture; o si sentivano passi, o canti dalla strada, o motori della via di circonvallazione. Se era estate e le finestre erano aperte, giungeva a volte chiarissimo un dialogo a bassa voce, rimandato dal gioco dell'eco prodotta dalla forma articolata delle grandi strutture. Mio padre passeggiava per le sue stanze, nella poca luce del crepuscolo, accendendo solo quando non ne poteva fare a meno. Si riposava gli occhi, si distendeva camminando col suo passo sicuro, fortemente ritmato, a testa china. Non usava altre stanze della casa, voleva che nelle sue camere non ci fossero mobili inutili a intralciargli la passeggiata. Così camminava, mugolando un motivo sempre ripetuto.

La sua ricerca pittorica in quest'ultimo terzo della sua vita tira le fila di tutto il pensiero precedente. Mio padre intendeva questo processo come ricerca di massima semplificazione, necessità di lavorare en souplesse perché dalla esperienza di tanti anni scaturisse il dipinto che non chiamava mai bello, ma solo a posto. Raramente era soddisfatto; la massima approvazione era "può andare", oppure "ne fanno anche di peggio", ma spesso decine di quadri venivano accuratamente messi da parte - non distrutti, perché la tela costa cara - per essere grattati con la carta vetrata. Per qualche giorno allora si poteva vedere, in due stanze contigue dello studio, due uomini in cappa grigia di cotone davanti a due cavalletti: uno era mio padre che dipingeva, l'altro il suo giovane amico Paolo che cancellava.

Vi sono in questo periodo un certo numero di quadri fatti solo di forme, non riferibili a nessun soggetto. Ma nella maggior parte di loro compare ancora, in qualche modo, la figura umana. Non sono più figure che occupano una prospettiva e la dominano; sono invece figure schiacciate dal materiale stesso da cui emergono, pietre, schegge, pietrisco; spesso c'è la bocca di una caverna da cui sembrano uscire a fatica. Questo materiale pesante a volte si alleggerisce, si fa quasi trasparente o assume colori di pastello. La figura umana non è mai più importante di ciò che la circonda. Un ometto appoggiato forma col movimento del collo, con l'apertura chiara della camicia, con le braccia, con le gambe, dei tratti di colore verticale un po' in tralice, che continuano con la stessa forza e carattere accanto a lui, costituendo la massa cui si appoggia. La donna col secchio amaranto si va alleggerendo dal basso verso l'alto, finché la sua testa quasi sparisce dentro il materiale che si fa sempre più trasparente. Una grande figura sdraiata reca al centro una macchia blu, da cui sembra generata; e costruisce attorno a sé, con la irradiazione minerale di un cristallo, una materia originata dallo stesso colore.

Questo persistere della figura era per mio padre un tormento. Diceva che si sentiva legato, impedito; condizionato nonostante tutto dalla necessità che i movimenti fossero accettabili e comprensibili. Ma questa figura umana gli tornava sempre tra le mani, e bisognava tribolare perché non accampasse nel quadro diritti che non aveva, e tutte le necessità fossero soddisfatte. Rispetto alla contrazione e alla tensione dell'età matura, la sua vecchiaia è stata sedata, spesso serena. Non mai rassegnata, però; non ha mai visto nella vecchiaia niente di bello; è rimasto sempre dolorosamente stupito nel vedere riflesso nella vetrina un vecchio che era lui, o di vedere spogliandosi delle gambe di vecchio che erano le sue. Non era d'accordo col venditore di almanacchi, non avrebbe avuto dubbi: riavere venti anni subito, a qualsiasi patto.

Non vi era tuttavia in lui niente di vitalistico; era malinconico, e spesso si annoiava. Ma aveva un gran rispetto per questa snocciolata di giorni che è la vita; un rispetto con alcuni tratti di parsimoniosità per questa unica cosa che abbiamo, per mantenerne la forza, la capacità. Gli piaceva Rabelais, e apprezzò gli studi del Bachtin, soprattutto per la ricostruzione della filosofia rabelesiana. Leggendo si era fermato su questi brani: "La morte qui non spezza la serie ininterrotta della vita umana... è fatta della stessa pasta di cui è fatta la vita"; "... doveva valutare in modo nuovo anche la morte, mostrarla cioè nella serie temporale generale della vita che continua ad avanzare e non inciampa nella morte, sprofondando negli abissi ultraterreni, ma resta tutta qui, in questo tempo e in questo spazio, sotto il nostro sole".

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