Alla pagina 72 del n. 55 di Airone, una rivista che un tempo era un vero testo sacro per chi si interessava alle tematiche ambientali, inizia l’articolo col quale nel lontano novembre del 1985 vennero presentati al mondo i “Sentieri di Airone”: tre percorsi che formano una sorta di trifoglio “del tutto inedito” e capace di consentire “piacevoli escursioni” all’Orecchiella. Si tratta di una località che per molti è un parco naturale, sebbene non sia mai stato istituito, e che per altri è un luogo simbolo oggi incluso nel Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano. A distanza di oltre 25 anni quei sentieri sono ancora una splendida realtà che consente di visitare un territorio di rara bellezza in cui uomo e natura hanno creato paesaggi di straordinaria suggestione. Proprio nei giorni scorsi abbiamo ripercorso il sentiero Airone 3, il più lungo dei tre itinerari.
Inconfondibile la segnaletica ripristinata di recente: un trifoglio giallo su campo celeste, la scritta Airone in coda e il numero tre sulla punta di quelle frecce che guidano dal Centro Visitatori dell’Orecchiella verso il Monte Prado, il punto più alto della Toscana.
Pochi passi e una lapide presso una fontana ci ricorda i pastori di Soraggio che “con belanti greggi per un impervio sentier e con piovosi autunni” scesero al piano provenienti dagli “estivi alpeggi”. Già, siamo nelle terre del faggio e di qui in su in passato furono soprattutto pastori nelle praterie d’alta quota e i carbonai nelle foreste ad animare un territorio tanto bello quanto aspro e difficile.
Man mano che ci addentriamo nel bosco le eleganti “frecce” lasciano il posto a più semplici segnavia giallo-azzurri ma di tanto in tanto torna il trifoglio giallo su campo azzurro, a volte sul fusto di un albero, altre su di una pietra, sempre in bella vista e facile da vedere.
L’Airone 3 è un percorso da non fare distrattamente e lo si capisce bene quando si arriva in località Lamarossa. Per i meno attenti è una sorta di prato tra i boschi ma in questo periodo una miriade di fioriture, tra le quali primeggiano i pennacchi dell’erioforo, ci segnalano che siamo in un posto speciale: una torbiera. Si tratta di un’area umida di alta quota preziosa custode di specie rare. E’ un luogo a suo modo speciale da sempre protetto come Riserva Naturale Statale.
E’ solo un passaggio e si prosegue nella faggeta dove occhi attenti scorgono la tipiche piazzole delle carbonaie, frutto di un lavoro antico che spostava le genti da una terra all’altra. Era un lavoro duro, svolto in un ambiente difficile vivendo in capanne temporanee fatte di rami e frammenti di cotico erboso. Un lavoro del saper fare in cui il legno diventava prezioso carbone. Non il carbone fossile che aumenta i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera ma un carbone di legna che sfruttava quella che oggi chiamiamo una “risorsa rinnovabile”.
Il sentiero sale e i cartelli un po’ maleducatamente inchiodati sugli alberi ci ricordano che siamo in un Parco Nazionale. Incrociamo il sentiero CAI n. 64 continuando a salire. Arrivati alle quote in cui il bosco lascia spazio alle praterie e brughiere d’alta quota, ormai affaticati, voltandoci indietro veniamo ripagati dello sforzo: il panorama sulle Alpi Apuane è maestoso e il gruppo delle Panie si staglia nella foschia dietro il profilo delle foreste che abbiamo appena attraversato.
Fa una certa impressione guardare piccole piante fiorite a tratti strapazzate del vento e confrontarle con le massicce bancate di sedimento marino che formano queste montagne. Fa ancora più impressione pensare ai sommovimenti che le hanno condotte fin qui traslandole sopra le Alpi Apuane e facendole giacere in modi così diversi. Qua e là delle “fatte” (feci) piene di peli animali segnalano la presenza del lupo, poco sotto il crinale che percorriamo fino al Monte Prado. In questo tratto la vista spazia tra Toscana ed Emilia Romagna ed è semplicemente bella. Il Monte Cusna e il Lago Bargetana sono inevitabilmente i grandi attrattori ma quando si inizia la discesa con un po’ di fortuna si incrocia lo sguardo di una marmotta. Inutile cercare di fotografarla: è troppo veloce nonostante l’aspetto non proprio “atletico”.
Nella discesa dal Monte Prado inizia la variante rispetto al percorso ufficiale: non proseguiamo lungo in crinale per raggiungere il Rifugio La Foce ma, per un’abitudine consolidata negli anni in cui questo non era sempre aperto, raggiungiamo il Rifugio Cesare Battisti passando per il piccolo lago che poco prima abbiamo osservato dal punto più alto della Toscana.
Il Rifugio è un posto da favola. Panorama fantastico, una collezione botanica a cielo aperto in cui ad inizio luglio primeggia il giglio martagone, l’accoglienza è davvero speciale: il sorriso di Mascia, la ragazza che lo gestisce, ti conquista subito. Se questo non basta la cena preparata da Graziano, il cuoco, non può non aprire un varco nei tuoi sensi e farti esplorare territorio nuovi, come se quello che c’è fuori non bastasse. La gentilezza di Elena fa da collante umano mentre le regole per il risparmio idrico e l’elettricità da fotovoltaico insegnano qualcosa a tutti. In rifugio non mancano gli incontri, così allo stesso tavolo ci troviamo in tre guide e molti “amici di sempre che non si sono incontrati quasi mai”.
Se vi capita di dimenticare gli scuri della finestra aperti, l’alba del nuovo giorno può risultare fin troppo splendente ma le possibilità di impiegare utilmente il tempo non mancano: una passeggiata nei dintorni a quell’ora è un’avventura da gustare ma anche indugiare nel letto a castello può essere piacevole, dato che qui i pensieri sembrano animarsi meglio. In ogni caso seguono la colazione e la partenza. Nel nostro caso si parte con amici che poi lasceremo perché diretti altrove.
Nella nostra variante seguiamo il sentiero 633 fino alla Focerella, dove riprendiamo il tracciato ufficiale dell’Airone 3. Lambito il Rifugio La Foce, si inizia la discesa nella faggeta. Siamo nella Val di Soraggio che un tempo fu un luogo da ovini: qui si contavano migliaia di pecore nelle estati che precedettero il secondo conflitto mondiale. Oggi sono una vera e propria rarità.
La vallata fu anche teatro di imponenti interventi di forestazione che oggi caratterizzano un paesaggio molto più vivace di altri settori della Garfagnana. Pini, abeti e larici si insinuano nella faggeta. Attraversiamo e, soprattutto, vediamo ampie praterie e vecchi coltivi. Lo sguardo preannuncia una sorpresa, ma intanto attraversiamo uno dei torrenti che confluiscono a formare il Fiume Serchio. Mettere i piedi nelle sue fresche acque è di gran sollievo ma al suono del fiume inizia a sovrapporsi quello dei “campanacci” che dondolano fissati al collo delle pecore. A dispetto della riflessione fatta poco sopra, la nostra attenzione viene catturata proprio da un grande gregge.
Abbandoniamo il sentiero dirigendoci verso una grande prateria quando il gregge si dirige verso di noi. Alcuni cani ne controllano il movimento e circa quattrocento pecore sfilano davanti al nostro naso. Non si contano gli scatti della macchina fotografica, scatti che non si interrompono nemmeno quando Miahi, un pastore romeno, ci raggiunge. Parliamo soprattutto della sua vita e quasi non sembra rendersi conto del fatto che è protagonista di un fatto importantissimo: lui guida un grande gregge (lo scorso anno erano addirittura 800 capi) in un luogo che di greggi ne ha ospitati moltissime per poi rimanerne quasi orfano. Ci congediamo con lui che ci dà 10 euro: serviranno per una ricarica telefonica…
Il sentiero non è ancora terminato ma il canestro (o “corbello”, come avrebbe detto mio nonno) delle emozioni è colmo. Eppure tra affioramenti rocciosi in cui riconosciamo antiche faglie e fioriture frequentate da insetti dei mille colori c’è ancora spazio per un sussulto emotivo: l’incontro con un giovane maschio di capriolo che prima indugia sul nostro percorso, poi fugge via non senza concedersi la sosta che ci regala la possibilità di fargli una foto.
Scendiamo ancora, poi una breve risalita a Casini di Corte, dove i recinti elettrificati proteggono proprio dalla fauna selvatica innumerevoli campi di patate. La stagione è avara di pioggia e qua e là spruzzi d’acqua giungono da improbabili irrigatori. Intanto torniamo nel bosco, attraversiamo ruscelli, un’abetina si sostituisce alla faggeta dopo che avevamo incontrato i castagni e, quasi senza renderci conto siamo di nuovo all’Orecchiella. Giunti al parcheggio l’auto che ci attende sembra il testimone di tempi lontani…
[tratto dal blog itinerariesentieri]