Livorno
Il 4 giugno del 1894 fece ingresso in casa Pascoli quel caro compagnino che non doveva più separarsi da noi se non con la morte. Glielo portò il padre di Antony de Witt, quest’ultimo illustratore di alcune poesie del Pascoli: per collocarlo bene aveva pensato di farne un dono a Giovannino. A dir il vero non poteva trovargli un padrone migliore. Il cucciolo, che aveva appena cinque mesi, era un incrocio di due razze assai diverse essendo figlio di una canina levriera (Canis familiaris) e di un bracco… Il pelame aveva raso, lucido e morbido come velluto; nero nel mantello e nella testa, ma bianchissimo nel petto, sul collo, in parte del muso e nei quattro piedi e nella punta della lunga coda. Era un gran bel balzanino, snello elegante ed aristocratico. Ma qual nome poteva convenirgli?
In quei giorni al Pascoli gli era giunta in regalo una scatola di dolci con sopra scritto il nome del “dolciere” che l’aveva spedita, Emanuele Gulì di Palermo. Al Pascoli, mentre colle sorelle stava cercando il nome da dargli, gli cadde l’occhio su quel nome: “Ecco trovato il nome: Gulì”. Le sorelle Maria e Ida subito incominciarono a chiamarlo con quel nome: “Gulì, qui! Gulì, là! Gulì, su! Gulì, giù!.”
Mariù, per il S. Giovanni di quell’anno, onomastico del fratello, prestò la sua musa a Gulì affinché potesse mostrare la sua gratitudine all’amato padrone. Il Pascoli nel leggerla ci sorrise, però la conservò.
“Poiché mi vedono / sempre vicino / a te, adorabile / mio padroncino, / gli amici trepidi / credon ch’io possa / con gentil mossa, / a te mio nobile / dolce signore, / svelare l’intimo / senso del cuore / che in questo placido / tuo dì festivo / sentono vivo. . . Per tutti t’auguro / mio buon signore, / premi à tuoi meriti, / gloria ed onore, / pace immutabile / ampia ricchezza, / ogni allegrezza. / Ed ora un’unica / preghiera ascolta / della tua frugola / fedele scolta: / Teco trascorrere / tutti i suoi dì / vuole Gulì.”
24 giugno 1894.
E Gulì fu ascoltato.
Così Giovanni, in una lettera scritta da Roma il 9 settembre 1894, scrive di Gulì alle sorelle:
“Gulà: e’ tu linguin l’è un po’ sfazzadin, e’ tu codin l’è birichin, e’ tu corizin l’è come quel de’ Mamalucchin (Mariù) e de’ Duchin (Ida) , e al to urcini (orecchie) a l’iè da gli urcinazzi longhi longhi. La cadnina (Catenina) a l’avrò in bascoza (saccoccia) e tla mittrò per turner a casina, dove cui sarà i capliton (cappellettoni) caplitazz (cappellettacci), brott biricon d’un urciunaz.”
Gulì, quale importante presenza nella casa e nella vita di Giovanni, molto spesso compare con Mariù nei saluti finali di molte lettere.
Il 26 giugno del 1901, col pensiero rivolto al ritorno a Castelvecchio per le vacanze estive dopo l’insegnamento all’Università di Messina, il Pascoli scrive una scherzosa lettera all’amico Caselli di Lucca, nella quale il Poeta compie la traslazione della sua persona in quella di Gulì e nel presunto suo parlare:
“Spero presto rivederdi a manciare una piccola bistecca con losso e il ventilatore. Zio e mamma ti saltano e tabbracciano sono tuo Gulì Pascoli dei piscottini mené tocchati poini. Ne manciano molti zio e mamma e altri sechatori”.
Sul finire del 1911 il Pascoli chiudeva una lettera col dire: “Non sto bene”. Il 6 aprile del successivo 1912 morirà a Bologna, ma questo sarà anche l’anno dell’addio al suo fido Gulì. Infatti, prima che Pascoli partisse da Castelvecchio per Bologna colla speranza della guarigione (era il 17 febbraio) in gennaio scriveva:
“Gulì, il caro Gulì, il ‘Dottor’ Gulì, quello che non era un cane ma Gulì, stava morendo”.
Augusto Vicinelli, nel suo libro dei ricordi di Mariù, così annotava: “Ho ascoltato molto dopo, nella sala da pranzo di Castelvecchio, su quel divano dove il vecchio morì, Maria parlare ancora commossa di lui e ripetere un profondo motto di Giovanni: ‘Se un cane potesse conoscere Dio, come lo amerebbe!’; e ricordare quella fine e il seppellimento, compiuto lei assente per non farla soffrire troppo, nell’orto ove già erano Merlino e la caprina.” Gulì spirava la sera del 21 gennaio.