Il binomio arte figurativa-musica non è cosa nuova. Ma l’appuntamento serale dell’EnoJazz nell’ex Albego Villa Libano a Barga non può che catalizzare ogni emozione raccolta al Barga Jazz Festval 2013, di per sé così stimolante.
Una cornice nella cornice: mentre il festival quest’anno è dedicato al sassofonista Pietro Tonolo, l’EnoJazz celebra ogni sera l’outsider musician Silvano Togneri.
Il borgo con le sue architetture, già di per sé opera d’arte tangibile, ospita la sede del Barga Jazz Club (di nuovo cornice nella cornice e arte nell’arte). Nella storica villa, nel cuore della manifestazione, è stata allestita un’interessante mostra di opere d’arte.
I grandi nomi non mancano: Keane, Nicola Salotti, Fabrizio da Prato, Roberto Giansanti, Candida Abbondi, Sara Moriconi, Massimo Salotti solo per citarne alcuni.
Inutile soffermarsi su ogni singolo artista o ogni singola opera. Più interessante risulta seguire la suadente atmosfera creata dal flusso di stimoli musicali e visivi. Entrando dal verde giardino, primo elegante elemento che accoglie i visitatori, fino ai semplici interni, è il ritmo della musica ad accompagnare gli altri ritmi: quelli della scultura, della pittura e delle istallazioni. Sono quindi i ritmi musicali, più colti, a fondersi con i ritmi sonori dei rumori d’ambiente, come i ritmi della linea si fondono con quelli del colore delle arti figurative, in un piccolo-grande evento che permette la fruizione dell’arte in come una fra le varie forme di “totalità” possibili.
Nella prima sala, già satura di musica, incontriamo le levi corde di “Antica Rumeria Lagrima de Oro” (2012), scultura bronzea di Roberto Giansanti. L’esilità e lo slancio dell’opera di Giansanti diviene qui un tutt’uno con quelle sonorità inconfondibili create dal jazz. A cavallo tra Informale e Nuova Figurazione, l’artista indaga in questa opera equilibrio e ritmo alla luce di un aerea assenza carica di significati, non dissimile dal prendere forma e dall’”inverarsi” della musica jazz. Nonostante rappresenti un violino, la seconda opera di Giansanti ci parla del silenzio. In “Violino” (2012) è il silenzio a regnare. L’immanenza della contemplazione estatica di un’arte che, corrosa dal tempo, si divincoli dalla scansione da esso imposta per farsi linguaggio universale. Ecco allora che la vera armonia prende forma attraverso pochi mirabili dettagli, e attraverso la matericità dell’opera stessa, in legno, ferro e bronzo.
Durante il caldo flusso musicale del jazz, facciamo pochi passi e dalla scultura arriviamo alla pittura. Anche se parlare di pittura per l’opera di Nicola Salotti è certamente riduttivo. Relativamente piccolo rispetto al formato delle altre opere, “Partenogenesi” (2010) è un concentrato di impulsi archetipici: la registrazione di un’attività intellettiva che è essa stessa parto del reale. Mentre “Genesis” (2010) e “Il cerchio della vita” (2013) testimoniano ancora l’estro coniugato all’abilità tecnica di questo artista, è in “Conformazioe II” (2010) che le intense vibrazioni cerebrali di Nicola Salotti prendono forma su tela con la forza del rosso e del bianco. Grazie all’attenta composizione di forme e colori, “Conformazione II” entra in piena sintonia con l’arte del jazz, rilanciandola. La questione non è tanto tematica, quanto legata ad un modo di catalizzare le energie mentali e creative suddette ri-componendole alla luce di una sensibiltà che spazia dall’Informale alla Graffiti Art, dai vari primitivismi all’arte del video. E’ infatti la sensibilità artistica di Nicola Salotti a proporre comunque un’arte nuova, fresca, virginale, tutta tesa fra le dimensioni della giungla dell’intelletto e quella della metropoli contemporanea. Del resto come certo jazz, che è al contempo primitivo e urbano.
Una certa intensità cerebrale, supportata da una concezione artistica tardo-liminale (quindi arte come margine ed arte come provocazione), si rintraccia anche nelle opere di Fabrizio Da Prato, per cui vale la pena soffermarsi su “Top” e “Pump Pump”, entrambe del 2012. La tecnica digitale su carta da affissione rivela un’approccio pop al tema dell’erotismo ostentato al limite della pornografia. D’altra parte, come il digitale ha contaminato ogni forma d’arte, la sensualità erotica tipica del jazz dialoga in modo quasi ossimorico con le contaminazioni tecniche e visive di Fabrizio Da Prato.
In equilibrio tra gioco pop e figurazione classica sono invece l’acrilico “Verdiana” (2013) di Francesca Pasquinucci, con un Giueseppe Verdi schizzato di verde, per un riferimento alla musica che, come arte totale, va oltre il jazz verso gli altrettanto sconfinati mondi della classica e dell’opea, ma che forse sottende anche un invito per l’arte stessa a non prendersi troppo sul serio.
Serietà e intensità che si trovano invece nel vivido ritratto di Keane, il “Don Rizzardi” (2004), una tela dipinta ad olio che sintetizza con un rosso pervasivo, il nero delle linee e i lampi di giallo, tutte le note del jazz.
Oppure nel “Corallo” (2011) di Candida Abbondio, dove in una singola scultura, ceramica e smalti riportano l’eleganza del ritmo propria della musica alla dimensione estetica di ciò che è organico: infatti, uno fra i quesiti sempre attuali è la riflessione su come l’arte possa creare un ponte fra il bello naturale e il bello artificiale, il deperibile e l’eterno, le arti cosiddette “maggiori” e quelle considerate a torto “minori”. Ecco che l’arte di Candida Abbondio, come anche quella di Roberto Giansanti, invera l’eterno riproporsi dello spirito nel bello naturale e artificiale attraverso varie tecniche e materiali, in un continuo rimando fra scultura, ceramica e gioielleria.
Sulla scia dell’incontro tra organico e inorganico, del resto, è anche l’opera intitolata appunto “Incontro”(2013) in ceramica raku di Annalisa Atlante, che con la sua intimità e matericità, nonostante il piccolo formato, arriva a dialogare con l’esterno circostante; in sintonia estetica con la quotidianità di “Risvegli” (2000) di Fabio Romiti, ma in antitesi con l’acquerello e l’acquaforte di Tony Phillips. Soprattutto nell’acquaforte di Phillips, dal titolo “Civiltà” (2002), si rintracciano tutti quegli ipertrofismi della contemporaneità, in un osessivo quanto ossessionato groviglio di corpi ed elementi sia sacri che profani, che giungono a noi, nonostante l’ironia, se non come urlo, quanto meno come lontana eco dell’opera di Keith Haring. Tutto ciò ancora una volta in opposizione con la distesa pastosità dei due dipinti, naif e “musicali” per colore e tema, di Sandra Rigali: “Zaka is the music” e “La Musica”, realizzati nel 2013, entrambi a tecnica mista.
Dritto al tema della musica vanno anche le opere di Massimo Salotti. Egli, lavorando nel e per la musica, senza escluderene la dimensione del tormento insita nel fare arte, propone due opere. “La campana incrinata” (2011), dove la figurazione prende forma su plexiglass (di per sé materiale incrilinabile) attraverso un volto che si confonde con un vortice di note. E’ forse una dichiarazione di intenti? Massimo Salotti ci fa sentire la sua musica non solo attraverso l’udito, ma ci mostra con la tecnica digitale un nuovo spartito che può arrivare a trasfigurarci grazie alla sua incandescenza estetica. Come il jazz rapisce sia chi lo suona che chi la ascolta, l’arte di Salotti si offre su più livelli di fruizione. Ciò è confermato anche in “Senso di nullità” (2011), dove la fiamma che brucia lo spartito è forse la medesima forza che brucia quando si genera arte o la si fruisce, indipendentemente dai segni e dai codici utilizzati.
Sempre all’esterno della villa, nel cuore del giardino, sono le sculture lignee di Luigi Paolini. L’arte di scolpire il legno vanta in Toscana, come anche nella Media Valle del Serchio, una tradizione plurisecolare. Impossibile resistere all’abilità tecnica di Paolini, il quale abilmente dà forma ad una serie di detti e leggende, permettendo che sia l’arte stessa a conferire suggestione e spirito ad una fra le più importanti manifestazioni della cultura popolare. Del resto, al fianco di un approccio artistico sempre più formalistico ed erudito, il rischio che corre l’artista contemporaneo è quello di dimenticare, sia a livello di significato che a quello di significante, il grande bagaglio territoriale dei detti e delle leggende locali. “L’uomo selvatico” (2011), “Unguento unguento” (2012) e “Gli streghi” (2012), in un repertorio di forme che va dal totemico al favolistico, recuperano tutta una serie di sensazioni di uno spazio-tempo in estinzione, dove l’opera d’arte esce dal legno di erica arborea per l’urgente bisogno di raccontare una storia.
Non meno importante, ma certamente più autoreferenziale nel proprio esistenzialismo, è l’opera di Sara Moriconi, giovane artista dalle felici intuizioni formali. Se l’opera tratta dalla serie “In Contemporanea” (2013) è una vivace e ritmica indagine che mette in discussione ciò che si vede (la visione stessa) attraverso colore e trasparenza, addizione e mancanza, interessante è l’”Autoritratto”, sempre acrilico su PVC. A detta dell’artista, nonostante il forte impatto visivo che i colori dell’opera regalano, essa è incompiuta. “Ogni volta, per vari motivi, non riesco a finirlo…E alla fine ho deciso di lasciarlo così!” mi dice l’artista in una breve intervista. E non dobbiamo certo scandalizzrci: il tema del non finito nell’arte è esso stesso non finito in quanto infinito. Come del resto il flusso del jazz, nel suo essere al contempo iperstrutturato ed a-strutturale, è una forma di non finito nell’arte. Per i riferimenti stilistici del suo “Autoritratto”, domando a Sara Moriconi: “Matisse?”. “No”, mi risponde. “Espressionismo tedesco” precisa.
Mentre le note e i ritmi jazz supportano l’esposizione artistica dell’evento barghigiano, nell’ultima sala c’è la “Greenroom Portraits – Enojazz 2013”, dove Caterina Salvi e Keane immortalano i visitatori increduli dietro una installazione di luci, opera di Marco Poma.
Ecco che in un gioco a scatola cinese, fatto di rimandi, addizioni e sottrazioni, cornici nelle cornici, contenitori e contenuto, l’EnoJazz di Barga riesce a fondere abilmente in un flusso unico una serie vastissima di impulsi artistici, che pongono il visitatore non tanto a contatto con l’arte, quanto nel vero cuore di essa, che è caldo e pulsante come il jazz.
Damiano Tonelli Breschi.