« Quasi non fece in tempo ad accorgersi di nulla. Solo quando sentì l’aria infilarsi violentemente tra i capelli, negli occhi e nel naso impedendole di respirare, capì che aveva sbagliato. Vedere il mondo da un altro punto di vista. Ecco di cosa aveva sentito il bisogno. »
LE EDIZIONI ANTEPRIMA PRESENTANO SIMONE TOGNERI COSE DA NON DIRE
Sullo sfondo di una Firenze di ordinario cinismo, che poco ha da spartire con le sue immagini da cartolina, un giovane gioielliere fiorentino viene svegliato nel cuore della notte da una telefonata… Scritto quasi per intero in prima persona, Cose da non dire, il nuovo thriller di Simone Togneri, dopo il davvero felice esordio del Dio del Sagittario, parte da una storia semplice, quasi banale, ma che ben presto conduce lettore e protagonista in un vortice di ansietà e inquietudine, dove nulla è come sembra e dove dietro la tranquilla apparenza di tante vite borghesi si nasconde la follia e il delitto.
COSE DA NON DIRE A LUGLIO, IN TUTTE LE LIBRERIE
ISBN 978-88-88857-15-2 / pagg. 240 / euro 16,00 /
Conversazione con Simone Togneri
Simone come mai il noir? «Perché mi affascinano molto i lati oscuri dell’uomo e tutti quei meccanismi che trasformano la sua mente in qualcosa di distorto. Mi piacciono i personaggi complessi e instabili, che soffrono per le conseguenze delle loro scelte o perchè non possono scegliere; mi piacciono i giusti che non sono buoni, ma anche i buoni che diventano ingiusti.»
Che cos’è Cose da non dire? «E’ un viaggio attraverso la vita di un uomo qualunque che si trova coinvolto suo malgrado in una serie di eventi a cui non solo non riesce a opporsi ma anzi, ne viene totalmente inglobato, entrando a far parte di un meccanismo (e di una realtà ) di cui non conosceva l’esistenza e di cui non bisogna parlare. E’ un indagine sull’inatteso (e non gradito) che irrompe nella vita di tutti i giorni stravolgendola e conducendola, inevitabilmente, a qualcos’altro, che quasi mai è una miglioria dello stato di partenza.»
Per scrivere Dio del Sagittario, il tuo primo romanzo, furono le immagini dei Santi Martiri a ispirarti. Dov’è nata l’idea per Cose da non dire? «Nel quotidiano, direi. Mi ritengo un buon osservatore di quello che mi succede intorno e se una situazione o un’immagine mi colpisce particolarmente mi chiedo “Cosa succederebbe se…â€. Per Cose da non dire, una sera, prima di addormentarmi, mi sono chiesto: “Cosa succederebbe se qualcuno, nel cuore della notte, mi telefonasse chiedendomi disperatamente aiuto? Forse potrei pensare a uno scherzo. Ma se invece fosse tutto vero? Come reagirei?†E sono andato avanti così a farmi domande su domande…»
Il protagonista del romanzo si chiama Gerardo Ferri. Chi è? «E’ un gioielliere fiorentino vicino ai quaranta, una persona normalissima e “anonimaâ€, un professionista che vive del suo lavoro, un uomo che vive dell’amore della fidanzata musicista, Rebecca. Una persona che ha dubbi, che commette degli errori e tuttavia si rialza; una persona che vive di piccole soddisfazioni che forse agli occhi degli altri sono poca cosa, ma che per lui sono tutto. Uno di noi, insomma. A me è capitato di immedesimarmi in lui mentre ne scrivevo. Spero che succederà anche a chi vorrà leggere il libro.»
Altre storie nel cassetto? «I personaggi che hanno popolato Dio del Sagittario mi sono rimasti nel cuore, quindi sicuramente ci sarà un altro romanzo con protagonisti Simòn Renoir e il commissario Franco Mezzanotte. E poi ci sono le storie di tutti i giorni, che arrivano quando meno te lo aspetti e pretendono di essere ascoltate… come Cose da non dire.»
SIMONE TOGNERI è nato e vive a Barga, in provincia di Lucca, ed è diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Presso le Edizioni L’Età dell’Acquario ha pubblicato il suo primo romanzo, Dio del Sagittario.
« Il telefono cominciò a squillare quando mancava un quarto d’ora alle tre del mattino. Schizzai a sedere senza capire cosa stesse accadendo e mi scappò un’imprecazione. Accesi l’abat jour, ma la luce mi fece bruciare gli occhi e la spensi subito. Allungai una mano e afferrai il ricevitore a tentoni. Rebecca, pensai. «Pronto…», biascicai. Non parlò nessuno. «Pronto, Rebecca? Sei tu?» Alla fine ebbi una risposta, ma non quella che mi aspettavo. «Per favore non riattacchi!» Il grido isterico mi fece correre i brividi nelle vene e allontanare d’istinto la cornetta dall’orecchio. Era la voce di una ragazza, ma non era Rebecca. «La prego, mi aiuti… mi porti via da qui!» «Chi sei?» «Mi porti via!», ripeté lei mangiandosi le parole. «Via da dove?», domandai. Accesi di nuovo la lampada e stavolta mi sforzai di sopportare la luce. «Vogliono ammazzarmi! Mi aiuti la prego! Deve aiutarmi!» «Ti sembrano scherzi da fare a quest’ora?», sbottai. «Vai a rompere le palle a qualcun altro!» «Gesù, non è uno scherzo!», strillò. «Chiama la polizia, allora.» «Non posso.» «Perché?» «Se lo faccio mi ammazzano.» «Chi ti vuole ammazzare? Perché chiami proprio me? Chi ti ha dato il mio numero?» «La prego, non faccia domande, la prego… Venga a prendermi e le spiego tutto!» Feci per chiudere e per mandarla al diavolo. Ma mi trattenne il fatto che cominciò a piangere. Mi strofinai gli occhi e cercai di prendere tempo. «Senti», dissi, «stai dicendo sul serio? Davvero c’è qualcuno che…» «Sì, sì, è la verità !», si affannò a rispondere lei. La sua voce si distorse nel telefono. «Ma che posso fare io?» «Mi porti via. Subito!» «Come ti chiami? Io nemmeno ti conosco… come faccio a sapere che non mi prendi per il culo?» La sconosciuta cercò di parlare, ma le parole furono soffocate da un pianto straziante che finì per somigliare troppo a un rantolo di agonia. Mi parve solo di percepire un per favore… Mi sentii in colpa. Chiunque fosse, mi stava lanciando una richiesta d’aiuto disperata e io stavo a perdere minuti che per lei potevano fare la differenza tra la vita o la morte. Certo, poteva essere uno scherzo di pessimo gusto. Ma poteva anche essere tutto vero. «Va bene, va bene…», sospirai cercando di organizzare le idee. «Adesso calmati e dimmi dove ti trovi.» Silenzio. «Ci sei? Dimmi dove ti trovi.» «Non chiami i carabinieri.» «Non chiamo nessuno. Dove sei?» La ragazza tirò su con il naso. «Sono in via Di Novoli, alla cabina d’angolo con via Monteverdi.» «È dall’altra parte della città !», obiettai. «Mi resta poco tempo.» «Non puoi scappare?», le chiesi. «No!» Misi le gambe fuori del letto e cercai le pantofole con la punta del piede. «Dai, faccio prima che posso. Come ti chiami?» Di nuovo silenzio. Ripetei la domanda un paio di volte, ma non ebbi risposta: dall’altra parte non c’era più nessuno. Mi alzai cercando di strapparmi via dagli occhi i resti del sonno. Mi buttai due manciate d’acqua in faccia e mi vestii alla svelta con gli abiti del giorno prima. Vogliono ammazzarmi. Mi porti via subito! Queste parole si alternavano alle mille domande che mi ronzavano in testa. Prima di uscire afferrai un taglierino e me lo ficcai in tasca. Non sapevo cosa ne avrei fatto, probabilmente non avrei mai avuto il coraggio di usarlo, ma in quel momento fu un gesto che mi venne spontaneo. Ci misi dodici minuti per arrivare alla cabina da dove aveva chiamato la ragazza. Non amo correre in macchina, ma quella notte spinsi la mia Corolla a più di cento all’ora sui viali di circonvallazione. Dove la porto? Cristo! Dove? No, è uno scherzo! E se è uno scherzo, beh, tanto meglio. Però potrebbe essere anche andata via, no? E se invece la trovo già morta che faccio? Cristo! Se è già morta che faccio? In via Maragliano mi fermai a meno di cento metri dall’angolo con via Monteverdi. Vidi le fasce scarlatte della cabina risaltare contro il buio della strada come le lanterne di un ristorante cinese. Spensi il motore e chiusi le portiere, un gesto che in quel momento mi dette sicurezza. Scrutai attentamente la cabina senza vedere nessuno. Se n’è andata! O era uno scherzo… Aspettai. Il taglierino mi premeva contro la coscia e mi fece sentire uno stupido. Però, se è uno scherzo, che attrice! Cinque minuti dopo scesi. L’aria era calda. Da qualche parte arrivò l’odore dolce di una pasticceria. Nessuno in strada, nemmeno una puttana. Camminai lentamente verso la cabina. Non so perché lo feci, forse solo per poter tornare a letto con la coscienza pulita, forse perché ero sempre più sicuro che si trattasse di uno scherzo degli amici con cui avevo cenato qualche ora prima. La porta della cabina era socchiusa. Qualcosa le impediva di chiudersi del tutto. A terra vidi un piede, un piede in un infradito bianco. Ebbi l’impulso di scappare, fare il vigliacco e correre in macchina fino a casa a far finta di aver sognato. Ma avevo una coscienza. Così respirai profondamente e spinsi la porta. Sul pavimento della cabina c’era lei. Gli occhi spalancati, la testa riversa contro il vetro, la bocca socchiusa. Mi guardava, immobile, sembrava volesse rimproverarmi di non essere arrivato in tempo. Non avevo mai visto un cadavere prima d’ora, non avevo avuto nemmeno la forza di vedere quello di mia sorella dopo che si era buttata dalla finestra di casa nostra. Mi girò la testa, ebbi un attacco di nausea e barcollai all’indietro rischiando di perdere l’equilibrio. Ebbi la sensazione che tutta Firenze si fosse svegliata per osservarmi e giudicarmi colpevole di qualcosa che non avevo fatto. Allungai la mano alla tasca della camicia per prendere il cellulare e mi accorsi che non c’era. L’avevo lasciato sulla macchina, o forse a casa. A ogni modo non ebbi bisogno di chiamare i soccorsi, perché un paio di gazzelle dei carabinieri arrivarono di gran carriera insieme a un’autoambulanza. Due carabinieri mi presero, mi spostarono di peso verso il muro più vicino e mi chiesero cosa facevo lì. Balbettai qualcosa riguardo alla telefonata, ma non mi credettero. Forse non mi ascoltarono nemmeno. Uno di loro mi perquisì e quando trovò il taglierino nella tasca dei pantaloni imprecò sonoramente. Mi ammanettarono e mi spinsero sui sedili posteriori di una delle loro macchine. Con la coda dell’occhio vidi il medico del 118 abbassarsi sul corpo della ragazza e scuotere la testa. Lo sentii dire che era morta da poco, che le avevano fracassato la testa contro il vetro. Uno degli uomini in divisa salì sull’auto e si sedette accanto a me. Sulle spalle aveva i gradi e in mano la mia patente. Si presentò come il maresciallo Fontana. «Gerardo Ferri?», disse scrutandola. Annuii. «È stato lei?», inclinò la testa in direzione della ragazza. Io lo fissai sbigottito. «Oddio no!», strillai. «Senta, non facciamola lunga: mi dica subito come stanno le cose, che è meglio per tutti. Soprattutto per lei.» «Non sono stato io, glielo giuro!» Raccontai della telefonata e spiegai anche la presenza del taglierino nella tasca, ma lui non batté ciglio e mi chiese chi era la ragazza e perché l’avevo ammazzata. «Non la conosco! Che motivo avrei avuto per ucciderla?», risposi. Uno dei carabinieri bussò contro il finestrino e passò al maresciallo un biglietto color sabbia. Aveva qualcosa di familiare. «È suo?», mi chiese tenendolo in aria. Strizzai gli occhi per mettere a fuoco. Stelle D’Argento, argenteria di G. Ferri, via Alamanni 73, 055.327478. «Sì. È mio.» «Ce l’aveva la donna.» «Forse è una cliente», ipotizzai. «Forse?» «Magari è venuta solo una volta….»,
sbuffai. «Il fatto che sia stata mia cliente non vuol dire che la conosca. E comunque, se è una cliente, non è una di quelle che viene spesso.» «Ma aveva il suo biglietto in mano. Come mai?» «In negozio i biglietti sono sul bancone, li possono prendere tutti. Lei mi ha chiamato a casa per chiedermi aiuto», mi affannai a ripetere, «l’avrà tirato fuori per comporre il numero.» «E perché dovrebbe aver chiamato lei e non noi, signor Ferri?» «Ha detto che se chiamava voi l’avrebbero ammazzata.» Il modo in cui il maresciallo sollevò il sopracciglio mi fece intendere che non credeva a una sola parola. «Non so altro, non posso immaginare cosa le sia passato per la testa.» Per la terza volta cominciai a ripetere il racconto della telefonata. Il maresciallo mi interruppe sollevando in aria il mio biglietto da visita. Nei suoi occhi era comparso un dubbio che aveva intenzione di togliersi subito. «Il suo numero di casa è questo?» Fissai i numeri stampati in caratteri eleganti, come se non li conoscessi. Ebbi la sensazione di cadere all’indietro. «No, questo è… è il negozio… Come ha avuto il mio numero di casa?» L’altro stirò le labbra in un sorriso, fece sparire il biglietto e mi schiaffeggiò la gamba. «È meglio che chiami il suo avvocato.»