Sixty-five years ago today, the largest Nazi killing camp, Auschwitz-Birkenau, was liberated by the Soviet army. Since then the slogan “Never again” has become something of a bad joke, taking into account the genocides in Cambodia (1975-79), Bosnia (1992), Rwanda (1994) and Darfur (2003- today). It would seem that we have learned too little and let people die en masse not for what they did but for who they were – just as happened in the Nazi death camps. Maybe it is time to listen once again to some of the people who were active during those years.
To commemorate the, “Giorno della Memoria” – held on the 27th of January each year, the Comune of Barga invited Fratel Arturo Paoli to Palazzo Pancrazi to speak about his experiences during 1943 – 1944 when he was a young priest in Lucca and member of the Resistance.
Arturo spoke for 40 minutes in his quiet and unassuming voice of his memories during those years recounting stories which for many people in the room were from the distant past when the rules of life were completely different but he managed to make it not just thoroughly interesting but above all, relevant to the very different world that we live in today.
Arturo managed to save the lives of many Jews during those years from not just the accusing pointed fingers of the fascist politicians of the time but also the ferocious onslaught of the German SS. He has been awarded many prizes and medals commemorating all those risks that he took during the war years in helping the Jewish population. He has also been one of the few outspoken critics of the Israeli occupation of Palestine and their treatment of the Palestinians, commenting that the Israelis seem to have forgotten just what was inflicted on them. Over the last decade, any critic of Israel is almost invariably labelled “anti-Semitic” … it would be very difficult to attach this label to Arturo Paoli.
“La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” (Legge 20 luglio 2000, n. 211).
Arturo Paoli nasce a Lucca in via Santa Lucia il 30 novembre 1912, si laurea in lettere a Pisa nel 1936, entra in seminario l’anno successivo e viene ordinato sacerdote nel giugno 1940.
Partecipa tra il 1943 e il 1944 alla Resistenza e svolge la sua missione sacerdotale a Lucca fino al 1949, quando viene chiamato a Roma come vice-asistente della Gioventù di Azione Cattolica, su richiesta di Mons. Montini, poi papa Paolo VI. Qui si scontra con i metodi e l’ideologia di Luigi Gedda, presidente generale dell’Azione Cattolica e all’inizio del 1954 riceve l’ordine di lasciare Roma per imbarcarsi come cappellano sulla nave argentina “Corrientes”, destinata al trasporto degli emigranti.
Arturo compie solo due viaggi. Sulla nave incontra un Piccolo fratello della Fraternità di Lima, Jean Saphores, che Arturo assisterà in punto di morte. A seguito di questo incontro decide di entrare nella congregazione religiosa ispirata a Charles de Foucauld e vive il periodo di noviziato a El Abiodh, al limite del deserto, in Algeria. Poi passa ad Orano dove, negli anni della lotta di liberazione algerina, svolge mansioni di magazziniere in un deposito del porto. Nel 1957 viene incaricato di fondare una nuova Fraternità a Bindua, zona mineraria della Sardegna, dove lavora manualmente: ma il suo rientro in Italia non viene ben visto dalle autorità vaticane.
Decide allora di trasferirsi stabilmente in America Latina e si trasferisce in Argentina a Fortin Olmos, tra i boscaioli – hacheros – che lavorano per una compagnia inglese del legname. Sarà questo uno dei periodi più duri dell’esperienza latino-americana. Quando la compagnia decide di abbandonare la zona ormai impoverita del prezioso legno quebracho, Arturo organizza una cooperativa per permettere ai boscaioli di continuare a vivere sul posto. Nel 1969 viene scelto come superiore regionale della comunità latinoamericana dei Piccoli Fratelli, trasferendosi vicino a Buenos Aires. Qui vivono i novizi della fraternità e si comincia a delineare una teologia comprometida, preludio dell’adesione alla teologia della Liberazione. In questo periodo pubblica il suo secondo libro Dialogo della liberazione. Nel 1971 nasce un nuovo noviziato a Suriyaco, nella diocesi di La Rioja, una zona semidesertica, poverissima, dove Arturo si trasferisce e incontra un vescovo a cui sarà legato da una forte amicizia, Enrique Angelelli, la voce più profetica della Chiesa argentina nei trementi anni della dittatura militare: un prelato che doveva morire tragicamente nel 1976 in uno strano incidente stradale che oggi nessuno dubita di qualificare come assassinio e su cui nessuno svolgerà inchieste, malgrado l’espressa richiesta di Paolo VI.
Con il ritorno di Peron in Argentina il clima politico si fa pesante e Arturo viene accusato di esercitare un traffico d’armi con il Cile. In quel momento in Cile governava Allende, destituito nell’apocalittica giornata dell’11 settembre 1973 dal colpo di stato di Pinochet. Nel 1974 appare sui muri di Santiago un manifesto con una lista di persone da eliminare da parte di “chiunque le incontri”: il nome di Arturo è al secondo posto. Alcuni Piccoli fratelli vengono incarcerati e cinque di loro figureranno tra le migliaia di desaparecidos. Arturo in questo momento si trova in Venezuela, come responsabile dell’area latinoamericana dell’Ordine: avvertito da amici di non rientrare in Argentina perché ricercato vi tornerà solo nel 1985.
Inizia così l’esperienza venezuelana, prima a Monte Carmelo, poi alla periferia di Caracas, continuando, anzi intensificando, la sua produzione libraria: Il presente non basta a nessuno, Il grido della terra e tanti, tanti altri…
Con l’allentarsi della dittatura militare, Arturo intensifica le sue missioni in Brasile, risiedendo dal 1983 a Sao Leopoldo ed entrando in contatto con la realtà delle prostitute, numerose nel suo quartiere.
Nel 1987 si trasferisce su richiesta del vescovo locale a Foz do Iguaçu: qui va a vivere nel barrio di Boa Esperança dove costituisce una comunità. Ma, ricorda fratel Arturo “la condizione di estrema povertà della gente del quartiere mi tormentava e da questa angoscia nacque l’idea di creare l’Associazione Fraternità e Alleanza”, un ente filantropico, senza fini di lucro, con progetti sociali rivolti al bene della comunità.
Sono seguiti 13 anni di duro intenso lavoro per dare dignità a questa popolazione emarginata. Oggi l’AFA è una bella realtà, a cui si è aggiunta nel 2000 la Fondazione Charles de Foucauld rivolta in maniera specifica ai giovani del proletariato e del sottoproletariato di Boa Esperança. Insieme i due enti portano avanti numerosi mini-progetti che coinvolgono direttamente oltre 2000 persone fra adulti, adolescenti e bambini: ludoteca, ambulatorio, doposcuola (raggruppati nel progetto denominato “bambini denutriti”), casa della donna, mensa, corale, corsi di musica, di informatica, attività sportive… Progetti mirati alla formazione umana e resi possibili dall’aiuto di tanti, tanti amici italiani che li finanziano nella loro quasi totalità.
“La Chiesa, per merito di fratello Arturo e della sua Comunità, vuole collaborare a una vita umana più degna. L’A.F.A. è un grande progetto sociale e spero che ottenga l’ap
poggio che merita dalla Chiesa e dalla società”: così ha dichiarato il Nunzio Apostolico, mons. Alfio Rapisarda in visita a Boa Esperança. Anche per il nuovo vescovo di Foz, mons. Laurindo Guizzardi opere sociali come l’A.F.A. debbono essere sostenute ed incoraggiate: “Dobbiamo pregare Dio per la continuità di un’opera come questa”.
Lontano ma presente, l’impegno religioso e sociale nel sud del mondo non impedisce a fratel Arturo di vivere appassionatamente gli avvenimenti italiani e lucchesi. Nell’agosto 1995 interviene su “La Repubblica” dopo aver letto la corrispondenza fra Eugenio Scalfari, allora direttore del giornale, e lo scrittore Pietro Citati. A Scalari scrive una lettera che viene pubblicata con il titolo “Fede ed Utopia del Regno di Dio”:
“mi ha colpito il suo mettere in evidenza il mercato come elevato a divinità, perché da anni denunzio l’idolatria del mercato. Ciò mi è stato spesso rinfacciato come prova di ignoranza delle dottrine economiche. Sono cosciente della mia ignoranza, ma guardando l’idolatria del mercato nella prospettiva del Regno non vedo altro che milioni di persone stritolate sotto le ruote del mercato. Questa visione per me è quotidiana quando, all’alba, apro la porta della mia casa e trovo subito nei vicoli della favela le persone che gemono sotto le ruote del mercato, e sono la mia famiglia…”
A Lucca nel 1995 il sindaco Giulio Lazzaroni gli consegna il Diploma di partigiano. In quell’occasione fratel Arturo pronuncia queste parole:
“… la Resistenza non si è chiusa nell’ambito del 1945 e se noi non soffriamo fortemente di appartenere ad una famiglia che fabbrica le armi, che manda le mine che straziano i corpi dei bambini, se noi non pensiamo che il nostro benessere lo pagano milioni di affamati, se noi non pensiamo che mandiamo bastimenti carichi di armi nell’Africa, nella vicina Jugoslavia, ecc… e se noi non soffriamo nella nostra carne per questo scandalo vuol dire che la Resistenza è stata un’azione valorosa, generosa o forse anche una manifestazione di coraggio, ma non è stato qualcosa che ha aderito profondamente alla nostra anima, che è diventata legge della nostra vita… e perché questa celebrazione non sia retorica… forse oggi più di ieri c’è bisogno di resistere”.
Questo atteggiamento lo spinge a rifiutare la medaglia d’oro che annualmente la Camera di Commercio assegna ai lucchesi che hanno onorato la città nel mondo. La lettera pubblicata suscitò non poche polemiche:
“Conosco personalmente alcuni di voi per non dubitare della vostra nobilissima intenzione, ma pemettetemi di rifiutare un premio come missionario cattolico. A parte il fatto di sapere che il solo suggello che posso mettere sui quarant’anni di vita in America Latina è quello suggeritomi dal Vangelo “sono un servo inutile”, mi tormenta un’altra considerazione. Appartengo per nascita e formazione all’occidente che globalmente si dice cristiano, dalle Montagne Rocciose agli Urali, ed è incontestabile che questo mondo cristiano che si definisce Primo Mondo è al centro delle ingiustizie che sono la causa della fame di milioni di esseri che il catechismo ci ha insegnato a chiamare fratello: io torno in Brasile e non posso tornarvi ostentando sul petto una medaglia che premia la mia attività di ‘missionario’, rappresentante di una civiltà cristiana che spoglia della terra esseri umani che vi vivono da secoli prima di Cristo. E questa spoliazione dura dal 1492″.
Il 29 novembre 1999 a Brasilia, l’ambasciatore d’Israele gli consegna il più alto riconoscimento attribuito a cittadini non ebrei: ‘Giusto tra le nazioni’, per aver salvato nel 1944 a Lucca la vita di Zvi Yacov Gerstel, allora giovane ebreo tedesco, oggi tra i più noti studiosi del Talmud, e sua moglie. Il nome di fratel Arturo, “salvatore non solo della vita di una persona, ma anche della dignità dell’umanità intera”, sarà inciso nel have.
Il 9 febbraio 2000 a Firenze la Regione Toscana, su iniziativa del suo Presidente Vannino Chiti, alla presenza del Cardinale di Firenze Silvano Piovanelli e del rabbino di Firenze Yoseph Levi, festeggia il sessantesimo anniversario di fratel Arturo. In questa circostanza fratel Arturo dirà:
“Tutta la nostra cultura è una cultura di morte, l’occidente cristiano è il centro che ha organizzato la guerra, la carestia, l’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi”.
Il cardinale Piovanelli, dopo aver ricordato che don Paoli è stato un punto di riferimento importante nella sua formazione religiosa, sottolineerà:
“Siamo sempre rimasti colpiti dalle sue parole, dai suoi libri, ma soprattutto abbiamo ammirato il coraggio di una vita compromessa per stare dalla parte dei più deboli”.
—- La bella biografia che riportiamo è contenuta nel libro “Salutatemi Maria Rosa”, a cura di Luciano Fava, edito da Maria Pacini Fazzi di Lucca
Mi sento molto onorato e confuso per la solennità di questa riunione; io vi tratterò però come amici e vi parlerò come amico ad amici. Sono contento che si ricordino persone che hanno dato la loro vita: ho visto che sono stati 28 o 29 i religiosi uccisi dai tedeschi in questa epoca nefasta. Mi sento un po’ umiliato a sentire il mio nome oggi, perché come loro non ho offerto la mia vita; mi sento sempre un umiliato e un po’ “salvato”: non sono stato martire ma bisogna accettare quello che oggi gli uomini chiamano “il proprio destino” e che io riconosco come provvidenza del Padre.
Sono stato ordinato prete dopo la laurea universitaria in lettere, quando sono entrato in seminario per aver sentito la chiamata; la mia ordinazione è stata nel 1940. Il giorno stesso della mia ordinazione sono stato chiamato dal vescovo con altri tre compagni: saremo dovuti andare ad abitare l’edificio del vecchio seminario, rimasto vuoto dopo la costruzione del nuovo. Il vescovo voleva che il vecchio seminario raccogliesse tutti i perseguitati, non solo dai tedeschi ma anche dai fascisti, per evitare la prigionia e il campo di concentramento. Molti di questi erano stranieri: molti professionisti, avvocati, professori universitari a rischio di confino. Per riconoscere gli ebrei che venivano indirizzati all’accoglienza della nostra casa, per vedere che avessero veramente bisogno di soccorso e non fossero spie (come è successo ai certosini) avevamo escogitato un sistema: avevamo tagliato in due alcune monete di quel tempo (le 2, le 5 lire). Metà le conservavo io e l’altra metà doveva esibirla chi arrivava alla porta per controllare che fosse quella corrispondente; se era simile, allora cercavamo di smistarlo.
La mia nomina a Giusto: quando vivevo in una favela in Brasile ho ricevuto un giorno, improvvisamente, l’invito dell’ambasciatore israeliano a recarmi a Brasilia. Ho chiesto il motivo, e mi è stato risposto che l’invito proveniva direttamente dal governo, perché avevo salvato il padre di un’alta carica del governo.
Una giovane coppia di ebrei si era recata da me; la sposa stava per concludere il tempo della gravidanza. La portai sotto falso nome dalle suore che la accolsero; nacque una bambina. Intanto bisognava pensare al giovane sposo e a trovare loro un’abitazione. A quel tempo l’edificio del seminario era costituito da due ali, delle quali una ospitava il refettorio e le sale di studio: questi ambienti ufficialmente erano a disposizione per gli studenti provenienti dalla campagna, e questa era la scusa per tenere tutto aperto. Le due ali erano divise da un cortile. Mentre io trattavo con il giovane sposo (che poi è diventato rabbino, e il cui figlio ora è il rabbino capo di Parigi) vedemmo arrivare in cortile le SS. Con le SS non potevamo aspettarci altro che essere uccisi: lo sposo svenne tra le mie braccia. Nel decreto di nomina a Giusto è scritto che prima di svenire io gli dissi: “Non aver paura perché io ti salverò col mio sangue”. Io in realtà avevo molta paura, e non mi ricordo di aver pronunciato questa frase, che mi sembra anche un po’ retorica. C’era una porta a muro che dava su uno sgabuzzino dove tenevam
o vecchi giornali: nella confusione, non sapendo cosa fare, presi quest’uomo e lo infilai là dentro, poi chiusi la porta, sperando e dicendo: vediamo che succede. La paura era tanto più grande perché le per le SS non si trattava solo di prendere, catturare, uccidere le persone, ma di un gioco efferato e crudele, come quando a Stazzema sparavano ai bambini piccoli dopo averli lanciati per aria. Tra i tedeschi dell’esercito vi erano però molti sacerdoti. Venivano ogni settimana a confessarsi, parlando un latino perfetto. Io sono stato salvato da uno di questi.Intanto le SS, guidate da fascisti, stavano devastando i locali; entrarono al terzo piano dove mi trovavo io; cercando di farmi forza dissi: fate pure… e lì intervenne proprio la mando di Dio: alcuni loro compagni che erano avanti, cercando documenti e armi, li richiamarono a proseguire. Portarono via molte cose e se ne andarono dopo due o tre ore. Aprii la porta al giovane che era ancora completamente svenuto; io soffrivo ancor di più, pensando al pericolo scampato e al rischio corso dai ragazzi che ospitavamo. Lo sposo poi venne a trovarmi a Milano con tutta la famiglia, e mi ha voluto onorare con questo titolo: il mio nome è iscritto nel Giardino della Memoria. Io però non sono mai andato in Israele, dove si sono dimenticati di tutte le sofferenze e le perdite che hanno subito e sono diventati veramente ingiusti e crudeli coi palestinesi. Volevo quasi rinunciare al titolo, ma il vescovo me l’ha sconsigliato per non rinfocolare questo clima di odio. Ma non sono contento, perché sono Giusto di una nazione ingiusta.
Io sono il solo superstite di un gruppo nato su uno spirito comune: ho ringraziato tante volte Dio perché mi ha messo in una situazione di grande dono; non solo correvamo il rischio quotidianamente ma dovevamo fare anche molte rinunzie: quelli che arrivavano da noi spesso erano senza mangiare, e camminavano a piedi da giorni.
Per noi grande gioia fu la conoscenza di un giovane di circa vent’anni: quando lui si è trovato con noi preti, ci guardava con odio e paura perché non sapeva distinguere chi voleva il male e chi no. Dopo pochi giorni ho capito cosa gli mancava veramente: il padre e la sorella che erano spariti, e la madre ferita, che poi si è salvata. Questo giovane aveva frequentato il partito comunista e aveva un grande desiderio di non interrompere gli studi, allora cominciammo a leggere la Divina Commedia. Lui parlava poco italiano e benissimo il francese: io leggevo anche quando ero molto stanco e lui non si affaticava mai, avrebbe trascorso l’intera notte ad ascoltare, e con la lettura andavamo avanti delle ore la notte. Poi si ammalò , di pleurite, chiamammo un medico che gli prescrisse semplicemente aria fresca, un cambio di regime perché era sempre rinchiuso. L’arcivescovo di Lucca propose di farlo vestire da prete e lui accettò con entusiasmo; allora andavano insieme a fare il giro delle mura ogni giorno, e lui figurava, travestito, come il giovane segretario. Tutti gli anni poi, veniva a trovarmi e ci ricordavamo del passato. La Chiesa in quel momento non era così significante: non tutti i vescovi di’Italia hanno fatto questi salvataggi. Era il vescovo di Lucca a meritare questo titolo di Giusto perché non solo permetteva queste azioni, ma le sosteneva e vi partecipava direttamente. Se non lo facessimo – diceva – non avremmo più il diritto di farci chiamare cristiani.
Io fui catturato dieci giorni prima della liberazione di Lucca; sarei stato inviato in un campo di concentramento. La notte un sacerdote aprì lo sgabuzzino dove ero rinchiuso, mi diede una bicicletta e disse: fuggi. Andai a Bagni di Lucca dove sapevo che dei conoscenti avrebbero potuto accogliermi. Non so chi mi abbia salvato ma corse un grande rischio: era il sei agosto, in cui si ricorda la Trasfigurazione di Cristo. Ciò mi è sempre stato caro, tanto che poi in Argentina intitolai una cappella ad essa: è la gratitudine a Cristo per avermi fatto arrivare vivo fino ad oggi, seppure a un’età un po’ inappropriata.
Oggi ciò di cui c’è bisogno è educare i ragazzi al fatto che l’esistenza non è mia e quindi deve essere altruista, l’esistenza deve essere un dono che faccio agli altri. Non posso usare l’esistenza per fare ciò che voglio e mi piace: oggi ci si profuma, ci si diverte, ci si droga… perché l’esistenza non è mia. Sarei un ladro. L’esistenza mi è data perché io la metta a servizio degli altri.
Fratel Arturo Paoli
Click on the link below to hear the complete recording of Arturo Paoli speaking (in Italiano) this morning:
Arturo Paoli speaking in Palazzo Pancrazi Barga