di Tom Hooper
GB, Australia 2010 —–
Un regista semi esordiente, attori di altissimo profilo, una storia familiare, una narrazione elegante. Sembra quasi un miracolo che, di fronte alla concorrenza di Facebook (The Social Network) e del visionario mondo del balletto (Black Swan) a trionfare nella notte degli Oscar sia stato un piccolo, semplice gioiello come The King’s Speech, che ha vinto quattro statuette di primaria importanza: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura. Il re del titolo è Giorgio VI (un davvero eccellente Colin Firth); sovrano non sarebbe dovuto neanche diventarlo. Il film si addentra nell’esperienza straordinaria e sconosciuta di questo re per caso (il fratello maggiore David, interpretato da Guy Pearce, divenuto re come Edoardo VIII, abdicò poco dopo la sua ascesa al trono a causa della ben conosciuta, scandalosa relazione con la pluridivorziata americana Wallis Simpson) che durante tutta la sua vita combatté contro un nemico subdolo e indioso: la balbuzie. Problema che gli causava già enormi problemi quando era solo Bertie, duca di York e che arrischiava di accrescerli enormemente al momento in cui divenne Giorgio VI; ma, grazie al sincero amore della moglie Elizabeth (Helena Bonham Carter) e delle piccole figlie Margaret e Elisabetta (proprio la regina attuale), e soprattutto al servizio e all’amicizia dell’eccentrico logoterapeuta australiano Lionel Logue, attore mancato (un altrettanto eccellente Geoffrey Rush) riuscirà a ritrovare l’origine della sua malattia nella educazione regale subita in tenera infanzia dalla propria anafettiva famiglia (“Non siamo una famiglia, siamo una ditta” dice Firth riprendendo vere parole di Giorgio VI), e a riconoscere di poter superare il proprio problema ed essere un grande re, proprio nel momento in cui si fa sempre più pressante la minaccia nazista e le nubi della seconda guerra mondiale cominciano ad addensarsi sul cielo europeo.
Il film risulta veramente gradevole: nonostante la rappresentazione storica sia fedelissima, non si indugia mai in un tono troppo solenne (le scene più impegnative quali l’incoronazione sono presentate in filmati d’epoca) e si predilige nettamente il versante intimistico della vicenda. La vicenda di un uomo “normale” che si è trovato a vivere una situazione straordinaria: cresciuto all’ombra dello spigliato fratello maggiore (di cui nel film, per altro, si tacciono per lo più le manifeste simpatie filo naziste) e di una famiglia che non nasconde la durezza e il disprezzo (paterni) o l’indifferenza (materna) che nutre nei suoi confronti, Bertie si è creato, au contraire, un nido di affetti sinceri, con una moglie che gli è vicino al di là del proprio ruolo regale, e due bambine che egli non esita a trattare con affetto, da buon papà “borghese”. Altresì, al di fuori del proprio nucleo familiare, Bertie si mostra inizialmente freddo, collerico e antipaticamente consapevole della propria dignità di corte: i rapporti iniziali col proprio logoterapeuta, altrettanto deciso e scarsamente ossequioso, sono molto difficili a causa della forza dei due caratteri. Ma con l’avanzare del tempo le differenze si attutiscono notevolmente: Bertie si rivela sempre più un personaggio sincero, fragile, tenero e instaura un rapporto veramente amichevole con Logue che, da parte sua, vuole costituire uno specchio all’imperfezione del re. Infatti Logue ha sostanzialmente fallito nel suo mestiere (la recitazione), vuoi per capacità personali, vuoi per il disprezzo tipicamente british che gli inglesi di madre patria riservavano agli abitanti delle allora colonie, e ha trasfuso il proprio fallimento nel suo mestiere di logo terapeuta, aiutando gli altri a saltare l’ostacolo contro cui egli si è infranto. Quindi anche il nobile Windsor diviene davanti al “medico” una semplice persona da aiutare, costretta ai buffi e poco convenzionali esercizi che lo aiuteranno a seguire la propria guarigione.
(a cura di Sara Moscardini)