L’Alzheimer colpisce circa 35 milioni di persone nel mondo e in Italia sono circa 800.000 gli individui affetti da questa malattia, per lo più donne. Secondo gli studiosi dello Scripps Research Institute, la degenerazione delle cellule cerebrali che porta alle demenze senili e dunque all’Alzheimer, la più frequente di queste, potrebbe avere origine nel fegato. In realtà a bloccare la funzionalità neuronale nel cervello e quindi a provocare la demenza, sarebbero delle cosiddette placche amiloidi, sostanze extracellulari.
Tra i geni responsabili del loro sviluppo, ne sono stati individuati tre alterati che potrebbero essere particolarmente importanti in questo senso. Non solo. Si è evidenziato, che ad un numero elevato di questi geni alterati nel fegato, corrisponde un maggiore sviluppo di placche amiloidi a livello cerebrale. “Ciò può significare – ha affermato uno degli studiosi, il dott. Greg Sutcliffe – che una considerevole concentrazione di placche si origina nel fegato, circola nel sangue e penetra nel cervello. Se il risultato fosse confermato bloccarne la produzione a livello epatico dovrebbe proteggere anche il cervello. Questo semplificherebbe molto la ricerca di nuove terapie”.
I risultati di questo lavoro sono stati pubblicati sul ‘Journal of Neuroscience Research’ e non sono gli unici in evidenza in questi giorni. Interessante è infatti anche lo studio realizzato dai ricercatori della Northwestern University di Chicago (Usa), guidati da Christopher Bissonnette, che hanno creato in laboratorio dei “nuovi neuroni” utilizzando cellule staminali pluripotenti (embrionali umane): questo lavoro, potrebbe permettere di sostituire tutti quelli morti a causa delle varie forme di demenza senile, oltre che aprire la strada a nuove terapie farmacologiche.
I particolari sono evidenziati sulla rivista scientifica internazionale “Stem Cell” da cui si evince che l’origine delle placche senili o placche amiloidi, caratteristiche del morbo di Alzheimer, andrebbe quindi ricercata nel fegato e non nel cervello. E’ la conclusione a cui è giunto lo studio statunitense dello Scripps Research Institute pubblicato sul ‘Journal of Neuroscience Research’ e guidato da Greg Sutcliffe. Nello studio, condotto su topi da laboratorio, gli scienziati hanno cercato di identificare i geni che influenzano la quantità di proteina amiloide che si accumula nel cervello. I ricercatori hanno così scoperto tre geni che proteggono i topi dall’accumulo di questa sostanza, notando che, per ciascuno di tali geni, una minore espressione a livello del fegato era associata ad una maggiore protezione degli animali nei confronti del morbo di Alzheimer. in particolare, uno di questi geni codifica la presenilina, associata allo sviluppo della malattia nell’uomo. Un’alta espressione del prodotto di questo gene, Presenilin2, è correlata ad un maggiore accumulo di beta-amiloide nel cervello. Questa scoperta suggerisce che alte concentrazioni di beta-amiloide possono provenire dal fegato, circolare nel sangue e quindi giungere al cervello. Se i risultati saranno confermati, sarà possibile in futuro bloccare la produzione di beta-amiloide nel fegato per prevenire le alterazioni cerebrali tipiche del morbo di Alzheimer.
Sono stati molti, nel corso degli anni, gli studi svolti alla ricerca di una soluzione per questa malattia. Un articolo interessante uscito qualche anno fa sul New York Times racconta di un’iniziativa degna di attenzione svolta in alcuni musei americani, come quello d’Arte moderna e delle Belle arti di Boston, dove si è cercato di portare i pazienti affetti da morbo di Alzheimer nelle gallerie, usando le collezioni di opere d’arte come strumenti efficaci per impegnare le menti danneggiate dalla demenza. La cosa ha sorpreso perché ha funzionato, anche se nessuno sa esattamente come. Infatti, mentre la ricerca si è soprattutto orientata sugli effetti della musica e della recitazione sulle funzione cerebrali di questi pazienti, l’Istituto per la funzione musicale e neurologica nel Bronx ha studiato il fenomeno da ormai un decennio e afferma che non è stato invece fatto molto nel campo delle arti visive. Ci si è chiesto come mai, ad esempio, la demenza fronto-temporale, una forma relativamente rara di non-malattia cerebrale di Alzheimer, produce in alcune persone che non avevano alcun interesse precedente o attitudine per l’arte, a sviluppare un notevole talento artistico e anche voglia di guidare. “Certo non è solo un’esperienza visiva, ma è anche emozionale” sostiene O. Sacks, il neurologo e scrittore, che ha potuto osservare come la pittura nei pazienti dementi consenta un’espressività emotiva maggiore rispetto alla parola. “Questo intervento di arte terapia nei musei – afferma Sacks – vuole mettere in risalto come questa pratica, usata per decenni come una modalità non medica per aiutare una grande varietà di persone, bambini maltrattati, carcerati, malati di cancro e di Alzheimer, sia andata oltre alle case di riposo e agli ospedali, per accedere a luoghi diversi frequentati da ogni tipo di persone.
Osservare quadri di un certo calibro sprigiona racconti, ricordi e dibattiti sorprendenti e nuovi. Ad esempio un giorno, seduto di fronte al catturante quadro di Picasso: ‘Ragazza di fronte allo specchio’ al museo d’Arte moderna, un paziente di 88 anni, ex agente immobiliare, che non aveva mai avuto particolare interesse per l’arte moderna, parlando del quadro ha spiegato che è come se la ragazza stesse cercando di raccontare una storia usando parole che non esistono. Il pittore sa cosa vuole dire, ma noi no. Questo abisso di comprensione è un dato di fatto con cui lui si confronta ogni giorno. È malato di Alzheimer ad uno stadio medio, come il resto delle persone sedute accanto a lui in un piccolo semicerchio nel museo, tutte quante a fissare il quadro di Picasso. Sembravano davvero un gruppo di turisti in visita guidata come tanti altri. Ma la cosa sorprendente è che tutti quanti non davano affatto l’impressione di confusione e ansia, come accade di frequente tra coloro che soffrono di Alzheimer. E quando parlavano dei quadri non si ripetevano o perdevano il filo del discorso, come succede di frequente nella casa di cura a lungo termine, dove la maggior parte di loro vive a Palisades, New York”.
Sperando in un connubio tra scienza e arte che dia esiti positivi per debellare questa malattia della memoria è proprio il caso di dire che se hai fegato vinci nella vita.
(a cura di Roberta Valeriani)