Ricorrono quest’anno i cento anni dell’arrivo della ferrovia a in Garfagnana. Nelle prossime settimane ci occuperemo dell’annivcersario in diversi momenti. Cominciamo da oggi, pubblicando un estratto del libro “La strada ferrata della Garfagnana” scritto da Umberto Sereni (Maria Pacini Fazzi editore) nel 1986 nella ricorrenza del 75° anniversario.
IL GIORNO DELLA RESURREZIONE CIVILE
«Oggi incomincia per le regioni nostre la novella storia», con questa frase, che riecheggiava le parole pronunciate da Goethe dopo la battaglia di Valmy, il sindaco di Castelnuovo, Demetrio Vannugli, salutò l’arrivo del treno nella capitale della Garfagnana. Vannugli dava così voce a convinzioni e speranze che erano condivise da tutti quanti, in quel giorno, si erano dati appuntamento in Castelnuovo, oppure avevano salutato il passaggio del treno ad una delle tante soste che fece, entrando nel nuovo tronco. Le cronache del tempo ci consegnano l’immagine di una valle in festa, sventolio di tricolori, suoni di fanfare, squilli di campane, masse di popolo in movimento. Insomma quella giornata dal caldo quasi canicolare fu una sorta di Pasqua di resurrezione civile.
Era di questo tipo il messaggio che emanava dai tanti manifesti pubblicati per salutare l’arrivo del treno in Garfagnana. I loro autori ricorrevano alle ben vive reminiscenze carducciane per celebrare la fine del secolare isolamento e l’inizio di una nuova epoca. «L’avvenire ci si presenta ora radioso di luce benefica, apportatore di benessere generale, di progresso morale ed economico, e ci darà una vita piena di attività e di vigore»; lo affermava la Società Operaia di Castelnuovo, mentre l’amministrazione comunale di Gallicano, pur toccando gli stessi tasti, si lanciava quasi a sfiorare le vette della poesia: «Salve a Te o mostro metallico che ci doni la vita; salve o progresso fatale che ci sproni avanti alle conquiste del vero, alle santissime conquiste della civiltà».
Il Municipio di Castelnuovo si dedicava alla celebrazione del «lavoro redentore», che sembrava finalmente trionfare con quell’opera di insolite proporzioni per la realtà della valle; «Canta, o popolo forte, il cantico nuovo della rinnovata energia, canta l’inno di gloria, scrivi il poema dell’umano lavoro, riposa aquila stanca per voli più eccelsi». Era questo il senso del disegno realizzato da Adolfo Balduini per la cartolina commemorativa di quella giornata: un lavoratore, con il capo cinto di lauro ed in mano una possente mazza, qualcosa di simile ad un Prometeo che ha ormai spezzato le catene del servaggio, salutava il passaggio della locomotiva, rappresentando, come spiegava «La Gazzetta di Barga», «il lavoro fecondo che apre la via del progresso e della civiltà». Ed era questo il messaggio che veniva divulgato in quel giorno dalla edizione speciale del giornale barghigiano «La Corsonna» e dal numero unico, concordato a Castelnuovo tra i periodici «La Garfagnana» e «Il Serchio».
Queste attese e queste invocazioni risulterebbero inspiegabili se non fossero restituite all’ambiente ed alla cultura che le aveva prodotte. Erano, infatti, espressioni tipiche di un mondo che individuava nella ferrovia la condizione primaria per uscire dalla arretratezza ed imboccare la strada del progresso. Ma era anche, non dimentichiamolo, il 1911, l’anno del cinquantenario dell’unificazione nazionale: la ferrovia che finalmente giungeva a Castelnuovo poteva bene rappresentare i traguardi conquistati con il nuovo Regno. E poteva lasciar sperare in un avvenire più propizio anche per la Garfagnana, che fino ad allora era stata negletta dai governanti.
Ed in effetti la Garfagnana che accoglieva festosa il «mostro metallico» aveva davvero un gran bisogno di accelerare il ritmo della sua vita ed inserirsi così in quel flusso benefico del progresso di cui poteva vedere un confortante annuncio nei ponti che avevano superato i fiumi e vinto i dirupi e nelle gallerie che avevano forato i fianchi delle montagne.
Adesso questa Garfagnana affidava al treno il compito di farle recuperare il terreno perduto, di farle colmare le distanze che la tenevano separata dai centri più evoluti della nazione. Ecco il perché di tanto entusiasmo; ecco perché quel treno, che alle 10,40 di martedì 25 luglio era partito da Lucca «colmo» di personaggi importanti, quando si inoltrava nella Val di Serchio trovava tanta gente ad attenderlo festante. Tanta gente che credeva di sentire nel fischio lanciato dalla vaporiera una gioiosa e benefica sveglia, capace di far terminare il lungo e accidioso sonno di quelle terre.
Per un ambiente che considerava l’apatia come il più insidioso male della valle, al punto che, come avvenne per le feste settembrine del 1896, si volle scongiurare il diffondersi del morbo bruciando un fantoccio raffigurante l’inerzia, il treno, simbolo della velocità e del dinamismo, veniva a impersonificare una specie di provvido benefattore, una sorta di divinità amica, capace di far finire il «mondo vecchio» e di far iniziare il «mondo nuovo». E del resto non poteva certo essere passato inosservato che proprio laddove il «mondo nuovo» era cominciato, in quella parte di Garfagnana interessata all’attività di escavazione del marmo, il treno avesse fatta la sua prima apparizione, congiungendo gli agri marmiferi dell’Acqua Bianca con Gramolazzo e quindi con il centro di raccolta di Nicciano di Piazza al Serchio.
Al treno, dunque, veniva affidata una missione prometeica: vin-cere il passato, preparare il futuro. Ed i vincoli con il passato erano davvero forti e resistenti. Visitando in quegli anni la Garfagnana per conto del Patronato per gli Emigrati, Giovanni Preziosi era rimasto impressionato dalla miseria di certe zone, al punto che nella relazione di quel viaggio scriveva: «Meno alcuni comuni, nel resto i più non hanno neppure l’indizio della nettezza urbana e passando per alcune vie, e le più frequentate, specie nelle frazioni, non è possibile trattenersi dall’otturarsi le narici. Non è certo raro il caso di vedere in piena piazzetta porci aprirsi il facile varco tra gli uomini. Dappertutto è un miserando spettacolo di abituri scavati nel sottosuolo dove s’ammonticchiano in vita comune uomini e bestie. In tutto assieme uno stato così disastroso di cose in piena Toscana, e in tutto un intero circondario non è rinvenibile che solo in alcune delle zone più abbandonate della Calabria e della Basilicata».
Può essere che in questa descrizione il Preziosi, che non era incline ad usare sfumature, e lo avrebbe dimostrato nel prosieguo della sua non gloriosa carriera, sia ricorso a forzature, ma è da rilevare come da una Relazione del Sottoprefetto di Castelnuovo del 1911 non risulti una situazione tanto diversa. Parlando di Castel- nuovo il Sottoprefetto scriveva: «Una metà dei fabbricati è a rigore d’igiene inabitabile. In molti poi dei comuni minori e specialmente nelle frazioni l’abitato non ha nulla da invidiare ai paesi delle più infelici regioni d’Italia». La viabilità, continuava il funzionario ministeriale «è in genere scarsa e maltenuta. Vi sono comuni come Vergemoli, Trassilico, Fosciandora, Sillano che non hanno altra strada d’accesso che la mulattiera, pressoché impraticabile».
Le tristi condizioni sociali della valle erano rivelate dalle stati-stiche dell’emigrazione. Nel 1911 ben 1296 persone lasciavano la Garfagnana per cercare all’estero quel lavoro che non trovava¬no in patria. L’anno successivo il numero degli emigrati saliva a quota 1569 e nel 1913 toccava il tetto, sfiorando i 1600, con una percentuale terrificante, pari a 42 emigrati ogni 1000 abitanti. Il doppio della media del Regno. Addirittura peggiori erano le condizioni, sotto questa angolazione, dei comuni della Valle del Serchio lucchese, anch’essi investiti dal fenomeno migratorio. Da Bagni di Lucca nel triennio 1911-1913 partivano circa 3000 persone. Da Coreglia nello stesso periodo circa 600; da Barga oltre 1500 e da Borgo a Mozzano, infine, poco meno di 1000.
Si comprende così, alla luce di questi dati, perché l’arrivo della ferrovia fosse interpretato come una sorta di catarsi liberatrice dai ceppi del passato, di palingenetica resurrezione morale e civile. Documento di questa mentalità le parole con le quali uno dei collaboratori del giornale castelnuovese «La Frusta Apuana» celebrava la festa del Primo Maggio del 1910, quando già si sentiva nell’aria «l’acre odore delle ansimanti narici del mostro»: «La nostra povera vita paesana non è cambiata granché dal non lontano Medio Evo e si esplica con pettegolezzi a base di ripicchi personali, di invidiucce, di piccoli odi e di piccole vendette, senza mai ascendere a un concetto alto e degno, con poche manifestazioni fatte senza entusiasmo e senza fede, allo scopo di saziare un po’ d’ambizione e di vanagloria personale, ma con tutto ciò il progresso non si arresta per nessuna forza possibile. La vita è moto continuo, è moto verso il meglio. Ed io, fidente nei destini dell’Umanità, attendo che la vaporiera entrando a traverso a mille ostacoli nella valle, faccia sorgere, svelti e diritti verso il cielo, numerosi fumaioli che porteranno un po’ d’energia nuova nel sangue infrollito degli abitanti, rivoluzioneranno le coscienze e le menti».
Ecco perché quel 25 luglio del 1911 fu vissuto dalle popolazioni della Valle del Serchio e della Garfagnana come uno di quei giorni capaci di modificare destini individuali e collettivi. Ecco perché quel treno che, lanciando al cielo un fumo nero, avanzava diretto alla volta di Castelnuovo, autorizzava i sogni più audaci, alimentava le speranze più alte, sprigionava le emozioni più intense. E la Valle, divisa in tanti paesi, spesso ostili l’un l’altro per atavici rancori, d’un tratto si ritrovò unita nel celebrare il «mostro metallico» portatore di benessere e di progresso.
La festa vera e propria cominciava da Fornoli, da dove il treno partiva alle 11,50, dopo aver fatto il «pieno» degli ospiti. Su quel convoglio, composto di due locomotive e sei carrozze, c’erano circa 80 persone: il governo era rappresentato dagli onorevoli Vicini e Gallini. Folta la rappresentanza parlamentare: c’erano i deputati in carica Artom, Croce, Montauti, Pellerano e Di Palma, c’era l’ex deputato Binelli e c’era il futuro deputato Augusto Mancini, festeggiato rappresentante della Lucca «amica» della Valle. C’erano poi i prefetti di Lucca e di Massa, le due province che si univano, e c’erano generali, colonnelli, magistrati, ingegneri, sindaci, giornalisti. E c’era il comm. Parisi, il «costruttore», con tutto il suo staff.
Ad ogni stazione che incontrava nel nuovo percorso si faceva fe-sta: alle Capanne di Vitianu, l’attuale Calavorno, a Ghivizzano, a Piano di Coreglia-Ponte all’Ania, a Fornaci di Barga, a Barga- Gallicano, in località Mologno. Qui si era concentrata una massa di gente proveniente dai due centri. Quelli di Gallicano, presenti con fanfara e gonfaloni, reclamavano la realizzazione del nuovo ponte sul Serchio, in modo da avere un collegamento diretto con la stazione. Quelli di Barga, guidati dal Comitato Popolare, diretto dal prof. Cesare Biondi e Pietro Funai, erano scesi dall’antica cittadina medicea per salutare il treno e per inscenare anche una dimostrazione, sullo stesso tono di quella dei dirimpettai gallicanesi. I barghigiani chiedevano i finanziamenti per la costruenda strada del Piangrande, che avrebbe unito il loro paese con la ferrovia. Da Barga erano giunti in corteo, preceduti dalla banda, con le associazioni «Colombo» e «Angelio» e recando un vistoso cartello dal messaggio molto esplicito: «Vogliamo la strada del Piangrande». Il cartello veniva collocato sulla fiancata del treno che veniva festeggiato con una intensità che meravigliava i viaggiatori. Poi il convoglio ripartiva, ma si fermava assai presto, perché era giunto alla stazione di Castelvecchio. La sosta adesso aveva una motivazione speciale: inviare un riverente pensiero a Giovanni Pascoli, il poeta che viveva nella pace dell’eremo di Caprona. In verità, secondo gli intendimenti degli organizzatori delle manifestazioni, Pascoli avrebbe dovuto essere l’oratore ufficiale delle cerimonie inaugurali. Il sindaco di Castelnuovo Vannugli aveva comunicato al poeta questo desiderio, ma ne aveva ricevuto una risposta negativa. Le ragioni di quel rifiuto non sono state individuate, ma, è da crederlo, non si è lontani dal vero se lo si riconduce alla questione degli agitati rapporti del poeta con le vicende politico-amministrative barghigiane.
E’ noto infatti che Pascoli nelle lotte che dividevano la cittadina si era schierato a fianco dei moderati della «Crema» contro ì democratici del «Popolo». Questi ultimi avevano nel prof. Cesare Biondi il loro esponente più rappresentativo ed avevano nel prof. Augusto Mancini di Lucca il loro riferimento politico provinciale. Lo scontro tra le due fazioni si era concentrato proprio intorno alla questione della strada del Piangrande: il «Popolo» la voleva, al punto che con il lavoro volontario ne aveva realizzato un primo tratto; la «Crema» invece la avversava. Per un tipo umbratile come Pascoli insomma ce n’era già abbastanza per stare lontano dalle cerimonie; e caso mai avesse avuto una qualche intenzione di intervenire alla manifestazione di Castelnuovo, il solo sapere che tra i protagonisti di quella giornata c’era Augusto Mancini, responsabile ai suoi occhi della grave colpa di aver turbato la quiete bargea, era bastante a farlo recedere da ogni progetto. Un rifiuto carico di amarezza, possiamo ben dirlo. Perché il poeta sentiva come «sua» quella festa di popolo e sapeva che il suo compito era quello di «cantare» quella Pasqua di resurrezione civile. Del resto Pascoli aveva già anticipato nella lettera a Fortis del 1 905 i temi di quel poema «mancato». Sollecitando il Presidente del Consiglio a compiere un atto di buona volontà verso la «Lucca-Aulla» gli faceva intravedere il risorgimento economico della Valle come effetto della ferrovia: «E creda anche una cosa: un sacrificio fatto dallo Stato, in questo caso sarebbe fecondo d’insperate conseguenze… economiche. E vero che i marmi sono bellissimi… che il paese s’empirà di forestieri, d’alberghi, che anzi il Serchio — dove sono già… ricche borgate operaie… sarà pieno di officine».
Ma quel 25 luglio Pascoli rimase muto, anche se con quella sosta gli veniva riconosciuto nelle forme più solenni l’elevato rango di Nume tutelare della Valle. Era questo il senso del devoto omaggio compiuto, che poteva significare anche un invito alla riconciliazione nell’entusiasmo di quella giornata. Che era giornata di vita e di speranza.
Dopo un’altra breve fermata a Fosciandora il convoglio si dirigeva spedito alla volta di Castelnuovo. Erano le 12,30 quando, lasciata alle spalle la lunga galleria del Colle dei Cappuccini, il treno finalmente giungeva alla stazione di Castelnuovo. Erano lì a salutarlo sindaci, bande, bandiere, gentili signore, ragazzi, autorità civili e militari, notabili e gente anonima. Per tutti, sia per quelli che scendevano dal treno come per coloro che li avevano attesi, incominciava subito una maratona, che il caldo sole rendeva abbastanza pesante.
Dal piazzale della stazione, in ordine piuttosto sparso, partiva il corteo che si dirigeva in Municipio: discorso del sindaco Vannugli, rinfresco in onore degli ospiti e visita ai quadri esposti dal pittore Paltripieri. Poi dal Municipio altro corteo fino al teatro per i discorsi. Oratore ufficiale il prof. Carlo De Stefani, l’illustre geografo, studioso della Garfagnana e partecipe delle sue vicende. Prima del prof. De Stefani introduzione dell’avvocato Pedreschi, presidente della Società Operaia di Castelnuovo; dopo l’on. Artom, deputato del collegio e, richiesto a gran voce dai presenti, il prof. Mancini.
Dal teatro nuovo corteo per il ritorno alla stazione, dove, nei capannoni del magazzino merci si svolgeva il banchetto, curato dall’albergo «Il Globo» di Castelnuovo. Presenti 300 invitati. «Al levar delle mense» altri discorsi. Nell’ordine: il comm. Parisi, il sindaco Vannugli, l’on. Gallini, l’on. Vicini e il sig. Muraglia, rappresentante della Camera di Commercio di Carrara. Le cronache riferiscono che il banchetto ebbe termine alle ore 18. Intanto la festa proseguiva in tutta Castelnuovo, addobbata di tricolori e di insegne riproducenti gli stemmi dei comuni della Garfagnana.
Alla sera al teatro veniva rappresentato il «Ballo in maschera». Castelnuovo brillava al chiarore di centinaia di lumi. Sui monti i pastori avevano acceso i falò per salutare l’arrivo del «mostro metallico» che doveva sconfiggere le tenebre e preparare l’avvento della «civiltà redenta».