Cheyenne (Sean Penn) è una star del rock ultracinquantenne non più in attività da almeno un ventennio. Vive coi soli diritti d’autore, una fortuna, in una bellissima dimora a Dublino; la mattina, prima di uscire, si trucca e cotona i capelli come quando saliva sul palco, e va a trascorrere le sue giornate in solitudine: fa la spesa, incontra al centro commerciale l’amica Mary (Eve Hewson, figlia di Bono Vox), va al cimitero a visitare le tombe di due ragazzi che si uccisero ispirati dai testi delle sue canzoni, gioca a pelotas con la moglie Jane (Frances McDormand) che di mestiere è pompiere. In realtà è proprio lui, costantemente stranito e fuori dal mondo, ad avvertire di essere “un po’ depresso”. Un giorno arriva una telefonata dall’America: il padre di Cheyenne, con cui non ha più contatti da trent’anni, sta morendo. Presa la nave (ha paura dell’aereo), Cheyenne arriva nel nuovo mondo quando il padre è già spirato. Riceve in eredità i suoi diari, da cui emerge una vera e propria missione: negli ultimi trent’anni il padre dell’artista è stato impegnato nella ricerca del nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento. L’aguzzino, ancora vivo, ancora in America, non era mai stato trovato, nonostante numerosi fossero gli indizi raccolti. Inspiegabilmente, Cheyenne intraprende un lungo viaggio nell’America rurale (dipinta con una fotografia eccellente da Luca Bigazzi) per trovare il criminale.
Sean Penn domina il film in maniera superba: Cheyenne sembra uscito dal Candido di Voltaire, stralunato e distante dal mondo, quanto consapevole (seppure la ammissione arrivi gradatamente durante la pellicola) dei propri errori e limiti. Il suo atteggiamento, apparentemente pacato e distaccato, è costellato da battute sarcastiche e punte di violenza inaudita (che hanno il loro apice nel finale). Questo personaggio da solo regge l’intero film che si svolge invece in modo eccessivamente programmatico: l’originalità di Sorrentino, comunque presente nella sapienza delle inquadrature, nelle scelte cromatiche, nei volti imperfetti e presi dalla quotidianità (cosa questa straordinaria in un cinema che col tempo sembra sempre più patinato), appare imbrigliata da un ambiente poco familiare, e da una sceneggiatura lenta, dai lunghi silenzi e con scelte veramente imbarazzanti (come la storia del fratello di Mary fuggito di casa). Si fanno fronte in questo senso i due blocchi del film: il primo, girato in Irlanda, è meno avvincente ma descrive alla perfezione l’esistenza e le sensazioni del protagonista; il secondo, quello americano, ha una caratteristica invidiabile: Sorrentino, dall’esterno, sa descrivere gli Stati Uniti con un tocco veramente particolare: si pensi alla distanza tra questa America rurale, agricola, caratterizzata dalle infinite distanze e dai territori disabitati, e quanto appare normalmente ai nostri occhi (nel film appaiono trasmesse una conferenza di Sarah Palin e si sente la voce di Obama); tuttavia è proprio in questa seconda parte che la storia del singolo si perde nel confronto con la storia dei molti, e la maturazione di Cheyenne non appare chiara. Colonna sonora particolarmente ricercata, con varie versioni della canzone che dà il titolo al film.