Gianmaria Testa è una persona seria. Una merce rara di questi tempi.
Figlio di contadini, capostazione sino al 2007 a Cuneo, scrive canzoni da quando aveva 13 anni, ma il primo disco lo ha pubblicato a 35 dopo essere stato scoperto, quasi per caso, al Festival di Recanati, dalla produttrice Nicole Courtoise che lo ha portato in Francia ad esibirsi al New Morning e all’Olympia – luoghi sacri della musica parigina – rigorosamente in italiano.
Anche oggi, che fa concerti in Canada e Germania, continua a cantare in italiano. A volte chiama sul palco un traduttore. “A Innsbruck ricordo che si era offerto un ragazzo sardo. Ma una volta sul palco, ha confessato di non sapere una parola di tedesco: era salito solo perché non era riuscito a trovare un posto tra il pubblico. Allora è rimasto lì per tutto il tempo”.
Dopo i successi d’oltralpe, anche i critici nostrani si sono accorti di questo cantautore che di mestiere fa il capostazione.
“Ho scelto di continuare a fare il ferroviere – diceva nei primi anni Duemila – per trovare una collocazione anche fuori da questo ambiente. Continuo a fare il ferroviere perché così mi tengo attaccato al mondo “reale”. Mi serve per avere un contatto con il quotidiano, per mantenermi con i piedi per terra. Non mi va di fare un disco perché costretto da un contratto. Voglio fare i miei album quando ho qualcosa da dire. E non so nemmeno se continuerò per sempre a fare il cantautore”.
Poi nel 2007 ha deciso di abbandonare il suo impiego alle ferrovie: “non ce la facevo più, neanche facendo il part time, a dividermi tra concerti, incontri e lavoro. Quindi, ho dovuto scegliere… poi in ferrovia c’è un detto, una cosa che dicono sempre gli anziani: quando te ne puoi andare bisogna andare, se non te ne vai subito dopo ti succede qualcosa, per quelli che fanno i macchinisti o i capostazione, i mestieri a rischio di errore, e allora li ho ascoltati, sono andato via”.
Ma il successo non gli ha fatto, certo, montare la testa: “i meccanismi del successo mi sfuggono… il successo è un terno al lotto”. Anche perché non ama le luci del palcoscenico.
Confessa, infatti: “avrei di gran lunga preferito una cosa che mi permettesse di manifestare quella parte di me non dicibile che non prevedesse la mia presenza, per esempio avrei voluto essere capace di scrivere, dipingere o di scolpire. Ma purtroppo non ho di questi doni e il palcoscenico è assolutamente connaturato con questo fatto di scrivere canzoni… si potrebbe anche solo scrivere dischi, però alla fine viene un momento in cui incontri un pubblico, ma non è che io aspetti con ansia questa cosa…”.
All’inizio di un suo concerto ha chiesto: “Vi prego, non urlate… non riesco a suonare così. Io non sono un urlatore!”
Già infatti la sua voce, roca e fumante, quando canta è, a volte, quasi un sussurro, un eco lontano, delicato e potente.
Sempre raffinata. Come le sue canzoni.
Tra i suoi maestri, primo su tutti, Fabrizio De Andrè.
“L’ho visto solo una volta, avevo 16 anni e lui faceva un concerto dalle mie parti. Era l’epoca in cui si contestava il caro concerti e io facevo parte di un gruppo di contestatori. Per quell’occasione, però, comprai il biglietto – costava 5000 lire – e mi godei la sua esibizione in prima fila all’insaputa dei miei amici. Alla fine del concerto lui è uscito e ci è venuto incontro: “Cercate di capire, suono perché devo mangiare”.
Ormai affermato anche in Italia , nel 2007, ha ricevuto la Targa Tenco per l’album “Da questa parte del mare”. Un disco che affronta il tema della migrazione moderna: maturato nel tempo, nel corso di quindici anni e nato da un fatto ben preciso.
“Nel 1991 ho assistito a uno sbarco di clandestini a Manacore, una piccola baia sul Gargano. Era l’epoca dei primi sbarchi: ricordo un peschereccio avvicinarsi alla spiaggia e buttare qualcosa in un gommone. Erano due uomini, africani, che erano stati gettati a mare da una nave e soccorsi dal peschereccio. Uno è morto, l’altro è stato salvato dai medici: non sapeva nemmeno dire quanto tempo fosse rimasto in mare. Era impressionante la distanza tra noi, in costume da bagno sulla spiaggia, e loro, persi nella disperazione. Con questo disco ho solo voluto che di quel ricordo non si perdesse la memoria, per me e per i miei figli. D’altra parte ritengo che il mio compito sia quello di raccontare quello che accade, senza mai tirarmi indietro”.