Keane sei senza ombra di dubbio un figura fondamentale per l’arte e per la cultura del comune di Barga, hai dimostrato molte e molte altre volte ancora che non tutto è come semplicemente ci appare. Come definiresti il tuo lavoro artistico?
Se devo dare una definizione, “community artist” è la parola che mi descrive meglio: io lavoro nella comunità. Non credo che l’artista sia colui che lavora in studio e infine espone i suoi quadri. Secondo me gli artisti hanno una responsabilità: lavorare in base alla cultura e non secondo le conoscenze accademiche. Invece di guardare avanti, io guardo la periferia perché quello che abbiamo di fronte agli occhi dopo un po’ diventa invisibile. Quello che invece accade ai margini è molto più interessante: in inglese si chiama “lateral vision” e da questo scaturisce il “lateral thinking”. Intendo quanto teorizzato da Edward De Bono, parlo del pensiero divergente, il pensare creativo.
Sei irlandese di nascita ma naturalizzato barghigiano: che cosa ti ha colpito maggiormente per farti decidere di fermarti nella nostra terra?
Ho girato un bel po’ di mondo e sinceramente ho trovato posti più affascinanti e con maggiori possibilità che questo. Però per qualche ragione qui mi sono sentito a casa e ancora ora mi sento a casa, tra persone che formano una comunità vera, vibrante. Dove la gente ha tempo, e questa è la cosa più importante per me: gli scambi, le connessioni che ogni giorno si verificano tra le persone.
Mi sento fortunato ed è una sensazione che provo da anni.
Guardando ogni tua opera pittorica, pur con soggetti diversi, notiamo non solo la mano da pittore esperto quale sei, ma soprattutto il punto di vista con cui presenti i soggetti. Come se esistessero degli elementi che ritornano frequentemente in ciò che proponi. Quali sono le componenti che formulano la tua arte?
Ai tempi dell’università ho assistito ad una lezione sulla percezione. Il relatore parlava davanti ad una diapositiva proiettata dietro di lui. Non ricordo niente di quella lezione, se non che, ad un certo punto, il relatore ha estratto una pistola a salve ed ha sparato in aria, poi ha continuato a parlare per altri 30 secondi. Infine ci ha detto: «In questo modo ho cambiato la vostra percezione per sempre. Ogni volta che vi troverete in un’aula non potrete più non pensare che qualcuno potrebbe di nuovo esplodere un colpo di pistola». Aveva cambiato la nostra percezione dello stare in un’aula.
Parte del mio lavoro è quindi produrre un “frisson”, un brivido di mezzo secondo che in quel momento ti fa rendere conto di dove sei. È come un reset, ti fa cambiare idea.
Quanto sono importanti per la tua arte le tecniche tradizionali e quelle contemporanee?
Il mondo è pieno di cose belle. Perché farne altre? Si fanno quadri per comunicare o per sentirsi meglio dopo? Non mi interessa se la tecnica è contemporanea o tradizionale. Uso ogni mezzo che ho a disposizione. A Londra, negli anni Ottanta facevo quadri astratti di 5 x 3 metri e usavo scope come pennelli.
Ma è inutile fare quadri di queste dimensioni in Italia: non esistono case con pareti così grandi e possono essere custoditi solo in gallerie con spazi enormi. La prima cosa che penso quando realizzo un quadro è: con chi voglio parlare? Qual è il mio “pubblico”? Quando trovo questa risposta scelgo il medium più adatto e allora può essere carboncino, tempera a olio o addirittura la scultura, ma anche web design o la fotografia.
Qual è il tuo rapporto con il teatro? C’è una rappresentazione teatrale che ricordi con piacere?
Ho avuto un lungo rapporto col teatro ed il legame con esso è esclusivamente di cuore. Negli anni Settanta vivevo a 30 miglia da Stratford Upon Avon, città natale di Shakespeare; in città c’erano due teatri ed uno di questi si chiamava The Other Place: un “black room theatre”, una stanza nera e spoglia dove veniva recitato uno Shakespeare all’avanguardia. Questo posto era anche chiamato “theatre in the round” perché gli attori recitavano assieme al pubblico, senza scenografie. Questo esperimento è durato 10 o 15 anni, e in quegli anni Shakespeare era rappresentato ad altissimo livello sperimentale.
Andavo spesso lì, ma ho perso i primi 5 minuti di ogni performance perché non potevo pagare il biglietto di entrata. Solo dopo l’inizio dello spettacolo, infatti, era permesso di entrare ai chi aspettava fuori.
Inoltre, durante gli anni dell’università, quando studiavo belle arti, mi sono avvicinato al teatro di strada e nell’ultimo anno di studi ho imparato a fare il mangiafuoco e il giocoliere, a fare giochi di prestigio, ad usare i trampoli e a camminare sulla fune. Dopo la laurea ho acquistato una vecchia ambulanza ad un’asta a Londra e con due musicisti e tre clown ho girato l’Europa facendo teatro di strada in Olanda, Spagna, Francia.
Infine ho lavorato con Opera Barga e sono stato aiuto macchinista per il Teatro dei Differenti per 4 o 5 anni.
Chiodi e corde: a quel tempo tutto era tenuto insieme con questi due elementi. Ma è una tecnica, anzi una professione che adesso è scomparsa. Le scenografie di oggi sono allestite con ferro, viti e cacciaviti e spesso sono integrate da proiezioni.
Per questo sono fiero di aver lavorato come macchinista teatrale. Uno dei posti più belli di Barga che pochi conoscono è proprio la graticcia del Teatro dei Differenti. Il portachiavi del mio studio è un rocchetto del nostro teatro: anni fa mentre lavoravo in alto spora il palco, questo pezzo di legno è caduto dalla graticcia. Se sotto ci fosse stato qualcuno avrebbe potuto ucciderlo; l’ho conservato proprio per ricordarmi cosa sarebbe potuto accadere.
di più su Keane