Ricorre quest’anno, come ormai tutti sanno, il centenario della morte del poeta Giovanni Pascoli, evento che sarà festeggiato con un serie di importanti iniziative che vedranno il Comune di Barga protagonista; qui infatti il poeta aveva deciso di venire a vivere: vi aveva trovato il suo eden dove tutto era “Bello e Buono”. E di qui partì un grigio giorno di febbraio del 1912 per andare a Bologna, dove morì poche settimane dopo.
Pascoli, da tempo stava male. Agli spettatori del Teatro dei Differenti, nel giorno in cui aveva pronunciato il celebre “La Grande Proletaria si è mossa”, era apparso visibilmente invecchiato. Erano mesi che la sua salute stava declinando. Lo sapevano bene gli amici medici che lo seguivano: Alfredo Caproni, medico di Barga e Severo Bianchini, primario dell’Ospedale di Lucca, di origini romagnole. E proprio quest’ultimo era salito a Castelvecchio per constatare le preoccupazioni di Caproni. Preoccupazioni tutt’altro che infondate.
Ricordò, infatti, Bianchini: “In pochissimo tempo era decaduto. Nel silenzio dei fenomeni si era ordita la malattia insidiosa che, sorta nello stomaco, andava diffondendosi al fegato… Una visita brevissima bastò a rendermi conto della situazione tragica… e ci dicemmo con lo sguardo le parole fatali: “Giovannino è finito”. Una vita di continue apprensioni, di lavoro incessante e sedentario, le ansie dell’estro, i dolori suoi, i dolori di tutti dovevano avere operato su quell’organismo…”
“Guariscimi presto… ho tante cose ancora da fare” gli aveva richiesto Giovanni mentre lo visitava.
“Sono malato e triste, mio caro Vittorio. L’Africa mi consuma e l’Europa vile mi farà morire del mal di Napoleone” confidava all’amico Vittorio Cian. Intanto aveva fatto abbattere vecchi alberi nel suo orto, malinconicamente scherzava dicendo che così avrebbe visto l’orizzonte attorno alla sua tomba, presso San Niccolò.
In quei giorni si era aggiunto poi il dolore della morte del suo cane: Gulí, il “dottor” Gulí.
Scriveva: “Io non credevo d’averne a provare così grande dolore! Un cane… Già: un cane che ama non vale infinitamente più di quasi tutti i nostri fratelli uomini che non amano o che odiano o che né amano né odiano? Per me, questa stretta cerchia dell’umanità e del nostro pianeta terracqueo mi comincia a soffocare. Al largo! Al largo! Ora Gulí dorme nel più bel posto del nostro boschetto, tra odorosi bussoli, sotto lauri regii e allori, cullato dal canto mite e gentile degli sgriggioli e rotondo e pieno delle capinere. È in casa sua. Non andrà più ramingo pel mondo come fu sempre il suo destino, che gli aveva messo nel cuore il continuo atroce dubbio di essere lasciato e abbandonato da noi: donde i suoi bruschi risvegli con visite ansiose a tutti e due… Povero Gulí!”
Fu anche la morte del “caro Gulì” a convincere, definitivamente, Pascoli a dare ascolto ai consigli dei dottori e recarsi a Bologna.
Il giorno della partenza fu il 17 febbraio 1912. Nella notte i contadini di Castelvecchio avevano lavorato alacremente per creare una strada che permettesse all’auto su cui sarebbe stato trasportato di arrivare al casello del Salice dove l’attendeva un treno allestito appositamente per lui che lo avrebbe portato a Bologna. Un vagone trasformato in sala ospedaliera con tanto di letto e servizi per l’assistenza.
Ricorda, ancora, il professor Bianchini: “Appoggiato a me e a Caproni scese sino all’automobile (che l’attendeva sulla strada maestra). Prima di entrare nella vettura rivolse uno sguardo alla sua casa, e guardò la veranda vestita di edera (…) Con uno sguardo lungo, profondo… abbracciò tutto quello che era intorno: le case di Barga e di Castelvecchio, il bel San Niccolò, e tutte le cose a Lui famigliari che avevano rivelato così intimamente e così profondamente alla sua anima le loro voci più recondite”.
Prima di salire sul vagone, Pascoli, si volle trattenere ancora un po’. Sembravano echeggiare i versi di una sua poesia: “lo so che è l’ora, lo so che è tardi; ma un poco ancora lascia che guardi …”
Il dottor Bianchini non gli mise fretta. Sapeva bene che quello non era un arrivederci. Era un addio.