Valentina Buti con il reportage ‘Montelupo. Tra gli internati dell’Opg curati solo tre ore al mese’ pubblicato sulla cronaca di Firenze dell’Unità, e Cristina Becchi con il servizio ‘Maternita’ offesa (sulla triste storia di una madre che ha perso le sue due figlie in un incidente stradale) andato in onda sul circuito Italia 7-Rete 37-Tele 37, sono le due vincitrici della 6/a edizione del premio giornalistico Gabriele Capelli, intitolato allo storico capo della redazione toscana dell’Unità.
All’edizione 2011 hanno partecipato 25 giornalisti, tra i 28 ed i 35 anni, impegnati nelle maggiori testate della Toscana. Il premio Capelli è nato nel 2004 con lo scopo di incoraggiare la formazione e riconoscere l’attività di giovani giornalisti che lavorano nella carta stampata, online, radio e televisione.
Dopo due anni di interruzione il premio è tornato con una novità e per la prima volta è stato articolato in due sezioni: ‘Lavori testuali’, vinta da Buti e ‘Servizi audio visivi’, vinta da Becchi. Per ognuna delle due sezioni le vincitrici hanno ricevuto in premio la somma di 3 mila euro.
Oltre alle due vincitrici, sono stati premiati i lavori di altri otto giornalisti che hanno avuto una menzione della giuria: sono Emiliano Benedetti, Tommaso Galgani, Giulio Gori, Pamela Pucci, Giulio Sensi, Jacopo Storni, Luca Parenti e Gianmarco Sicuro
Tutti questi lavori andranno a comporre un E-book del premio, scaricabile gratuitamente dai siti di Odg e Ast Toscana. Alla premiazione, che si è svolta nella biblioteca delle Oblate, hanno partecipato Paolo Ciampi, presidente dell’Associazione stampa toscana, Federico Monechi, in rappresentanza dell’Ordine dei giornalisti della Toscana, Susanna Cressati, presidente della giuria ed Ennio Remondino.
Alla cerimonia è intervenuta anche la vedova di Gabriele, Margaret Haines Capelli che ha presentato la donazione lasciata per il premio dalla madre di Gabriele Capelli. – source ANSA
Montelupo Tra gli internati dell’Opg «curati» solo tre ore al mese di Valentina Buti
Chiudetelo, è un inferno, dovete chiuderlo». Gli daresti cinquant’anni, ma è più facile che ne abbia di meno. La reclusione invecchia, scava gli occhi. I suoi sono velati, stanchi. Come quelli di tutti gli altri che sono dentro, ammorbiditi, rallentati dai farmaci. Si è appena fatto la doccia, è a torso nudo, ha molte cicatrici sul braccio. «Non ci lasciate soli», chiede aiuto, ma sembra rassegnato alla sua sorte difficile, che è anche quella di altre 140 persone come lui, tutti uomini, tutti in stato di infermità mentale, tutti colpevoli di reati più o meno gravi, dall’omicidio al furto. Li chiamano internati, come ai tempi dei manicomi. E stanno in un manicomio. Che però è anche un carcere. Non sanno quando ne usciranno, perchè il loro crimine viene giudicato in base alla loro testa, e la loro pena si allunga a suon di proroghe, da 6 mesi a un anno, all’infinito, se non migliorano. Ospedale pischiatrico giudiziario di Montelupo: è una giornata d’estate, fa caldo. Ogni tanto un folata di vento, il giardino degli incontri è all’ombra, riparato dalla mole della villa medicea divenuta carcere nell’800. Un posto da favola visto dall’esterno, in mezzo ai tigli. Un incubo, per chi ne varca la soglia. Una madre abbraccia il figlio, lo accarezza sulle spalle. Lui tiene la testa bassa, si dondola. Gli pagano un educatore privato perchè nell’Opg ce ne sono solo 8 e non bastano per tutti. Lo stesso per le guardie, dovrebbero essere 130, sono 80 scarsi. Idem per i medici: solo uno dalle 7 alle 18, la notte devono sbrigarsela gli infermieri, che spalmati su 3 turni non raggiungono la trentina. È un ospedale psichiatrico, ma di psichiatri ce n’è uno che fa 18 ore a settimana e dedica 3 ore al mese a ciascun detenuto. Nel braccio della Torre ci sono i lavori in corso per la ristrutturazione, dovrebbero finire a fine anno, una maglia del Napoli è attaccata alle sbarre di una cella. Gli internati di Montelupo sono per lo più toscani, ma arrivano anche dall’Umbria, dalla Liguria, dall’Emilia e dalla Sardegna, oltre a chi chiede di essere trasferito per stare vicino ai familiari. Al primo piano ci stanno i più pericolosi, divisi dal mondo dalle grate. Nei piani alti, le porte invece sono spalancate da mattino a sera, come nell’altro braccio, quello dell’Ambrogiana, il più fatiscente, coi calcinacci per terra, la muffa alle pareti, alcune celle anguste sono chiuse perchè inagibili, ma i soldi per rimetterle in sesto ora non ci sono. Si sta fino a 7 in una cella di una manciata di metri quadrati, servizi igienici compresi, i sacchi della spazzatura attaccati alle sbarre, qualcuno tiene da parte il pane, qualcuno ci tiene alla pulizia, qualcun’altro meno e dalla porta del bagno filtra il sudicio, pozzanghere di chissà che per terra, cattivo odore. Le baruffe tra compagni di stanza capitano, c’è chi preferisce farsi male da solo, magari picchiando la testa contro il muro. L’ultimo suicidio risale a marzo, un ragazzo è morto inalando gas. È mezzogiorno, ma molti sono sotto le lenzuola. Stare a letto e fumare, fumare stando a letto, sono le attività principali. I laboratori sono stati decimati dai tagli, via quello di disegno, via quello di cartografia, via quello di fotografia. I più fortunati escono di pomeriggio con gli educatori, vanno in piscina. Quasi tutti hanno dita nere ingiallite dai filtri, si portano piano la cicca alla bocca, sono vicini ma guardano lontano, persi.«Io ho smesso 5 anni fa racconta un internato il fumo va nel cervello e nelle vene, contrasta con la terapia». C’è un 89enne tra i detenuti, dorme accanto a un 18enne, il più giovane. Uno è rientrato dopo aver commesso un’estorsione da 5 euro, un altro è arrivato dalla Rsa, ha ammazzato il vicino di letto. Pochi i tossicodipendenti, solo una persona fa il trattamento col metadone, pochi gli immigrati: i numeri sono rovesciati rispetto al carcere normale . Un ragazzo si mette sull’attenti quando passa il commissario. Un altro chiede perché è scaduto il termine del suo mandato di sorveglianza e ancora non ha parlato con il magistrato per il riesame. Tanti lamentano di non avere fornellini in cella. A quelli più anziani è difficile vedere un dente in bocca. Stanno tutti in ciabatte, un signore mostra la sua gamba gonfia. «Il 20 esco e me ne torno a Livorno, belli dice un altro, anche lui un sorriso di gengive – devo mangiare tanto per poi difendermi da chi mi è contro». Qualcuno lo ammonisce. «Va bene scuote la testa lui ma per sicurezza mangio tanto lo stesso!». San Giorgio, Don Bosco, Sollicciano: un signore da dietro le sbarre ammette che è grazie alla sua esperienza delle carceri toscane se riesce a sopravvivere a Montelupo. «Le ho girate tutte ma nessuna è terribile come l’Opg» assicura. Un altro ha raccolto foglie di tiglio, ci ha fatto la tisana e intanto pensa alla figlia, «che deve vendere una casa». Poi uno, con la camicia rossa, si accovaccia negli angoli per finire il tabacco, «che ci sto a fare qui che questo è un manicomio? Devo uscire!» grida. Con tutta la disperazione di Montelupo. – source – L’Unita