La mia intenzione non è di certo quella di offendere Francesco, un baldo settantatreenne che in un (caldo) sabato di ottobre ripete quasi ossessivamente la stessa operazione: legatura, strappo le delle foglie, altra legatura, strappo delle foglie, una nuova legatura, strappo delle foglie… e così via finché non sbuco io a far domande e fotografie.
Il gobbo in questione è il “Gobbo di Lucca“, un cardone molto apprezzato in lucchesia che a tratti ne caratterizza il paesaggio. Interi campi dal colore grigio – argenteo che talora interrompono una certa monotonia della campagna e tal’altra decorano quel periurbano che caratterizza la frastagliata periferia ovest di Lucca. Nel caso specifico siamo a Nave, a breve distanza dall’argine del Serchio.
“Qui viene bene” – mi dice Francesco – “e questo terreno aiuta a lavorare” poco dopo la pioggia è già asciutto e si può venire nel campo per legare, inclinare, coprire con la terra”.
Lo ascolto ad occhi aperti perché, più che la sua bocca, a parlare sono le sue mani. Con sorprendente velocità riunisce le foglie del cardone, afferra un nastrino verde, lega e strappa il ciuffetto di foglie sopra la legatura. Un passo alla propria destra, sposta il mazzetto di nastrini sul cardone già legato e ripete l’intero ciclo. Nel frattempo va vanti col racconto.
“Questo è il gobbo vero” – mi dice – “non uno di quei cardoni che molti coltivano oggi. Questo è verde e deve stare sotto terra per diventare bianco, non è già bianco come quello francese. Vedi quelli lì” – prosegue mentre trova il tempo per indicare i cardoni già coperti col terreno – “anche loro sono stati legati, poi con la vanga scavo un alloggio per ogni cardone, con la terra copro quello accanto, inclino la pianta e la copro con la terra del nuovo scavo”. Lo guardo con ammirazione e penso che sotto il peso del terreno il cardone diverrà bianco e si curverà in cerca della luce.
“Tanti mi chiedono perché li avvolgo in un nylon nero se poi li copro col terreno”, prosegue con sguardo attento al proprio lavoro. “Lo faccio perché rimangano puliti: per portarli a casa li carico in macchina…”.
“Una volta facevate così?”, gli chiedo. Si ferma e riflette, poi prosegue. “Una volta non c’erano i guanti e ci si pungeva. Si legavano con le vette di salice. Si prendevano dai salici che oggi sono quasi scomparsi. E si riutilizzavano: il salice nel terreno rimaneva flessibile e ci si potevano legare le viti”. Mi vengono in mente le viti maritate ai pioppi che ancora si trovano a breve distanza dal luogo in cui ci troviamo.
“E non si buttava via nulla” – mi dice ancora – “vedi queste foglie che strappo?”. Annuisco mentre mi racconta un mondo scomparso in cui le famiglie avevano la bestia e quelle foglie non cadevano a terra come accade oggi ma andavano verso le corti per esser poi mangiate dalle mucche. Ma anche dai maiali o dalle pecore, forse. In ogni caso non si buttava via niente.
“Questo posto era molto diverso”, mi dice poco prima dei saluti, “c’erano poche corti, qualche casa lungo la Via Sarzanese; ora è pieno di case. Comunque è andata bene: qui non ci sono grandi condomini, palazzi” – o, aggiungo io, supermercati – “grazie al Parco Fluviale per ora non si è costruito”.
Lo saluto: io devo tornare a casa e lui deve proseguire il proprio lavoro. “Non ti preoccupare: mi pagano uguale a fine giornata”, mi dice quando chiedo scusa per il disturbo. Sorride e capisco che per lui è un piacere lavorare e ancor più raccontare ciò che fa: ripete i gesti dei propri avi e mantiene in vita la tradizione legata a quel gobbo lucchese.
Sono commosso per le attenzioni e noto con piacere l’impegno che ci vuole per far diventare il cardone…
…bianco
😉
🙂