Phaseolus vulgaris L., il fagiolo comune, è una pianta sbarcata in Europa a seguito della scoperta dell’America. Si potrebbe pensare che in oltre 500 anni non sia l’unico ortaggio venuto d’oltreoceano ad essersi affermato ed è così. Anzi, forse è uno di quelli che negli ultimi decenni è stato messo un po’ in disparte, vuoi perché ci siamo convinti che le migliori proteine della nostra dieta possano venire dalla carne, vuoi perché simbolo di una certa povertà, di quel tempo in cui in molte zone d’Italia era “moneta” per pagare i contadini che lavoravano a mezzadria. Non ultimo, il suo consumo ha, come dire, degli effetti collaterali poco graditi a chi ha uno stile di vita modernamente urbano.
Parlando con Marco Del Pistoia, l’ideatore delle “Fagioliadi” che quest’anno sono state ospitate dal Desco di Lucca, ho scoperto che c’è stata una vera e propria guerra intestina tra fagioli. Una guerra in qualche modo, ma questo lo dico io, istigata dalla globalizzazione e dal grande bisogno di standard propri della cosiddetta GDO, la grande distribuzione organizzata. Sì, quei supermercati nei quali molti di noi fanno la spesa (e non c’è niente di male a farlo) nei quali tutto deve avere un certo aspetto altrimenti non si sta nella cassetta e non si può essere esposti per la vendita perché nessuno compra i prodotti più brutti e meno noti. Il risultato è che, del gran numero di varietà di fagiolo un tempo coltivate, solo pochi riescono a primeggiare e sopravvivere. Se molti fagioli non se la passano bene e rischiano l’estinzione, quasi non c’è scampo per chi fagiolo non è ma come fagiolo veniva coltivato prima che Colombo mettesse piede in America.
Capitato dalle parti del Desco e infiltratomi nella sala che ospita la “sfida semiseria di piatti a base di legumi” organizzata da Slow Food e chiamata “Fagioliadi”, ho deciso di fare una serie di piccole interviste ai legumi presenti. Si, avete capito bene: ho parlato con fagioli, fave, “vigne” e non so cos’altro per scoprire come se la passano. Segue il (non breve) resoconto di questi colloqui.
Inizierò dall’ultimo legume che ho incontrato, perché ci aiuta a capire alcune cose e anche perché mi ha permesso un incontro davvero piacevole e sorprendente. E’ un fagiolo che di nome fa “Piattella Pisana“. Tra tutti i fagioli che ho incontrato, per certi versi, è quello che sta meglio: è coltivato su un’area piuttosto grande che va da Pisa a Cascina con qualche propaggine sia verso Livorno, sia verso la Versilia e i produttori non sono pochissimi. Un’altra sua particolarità, sempre rispetto agli altri, è che in esso si riconosce una certa variabilità che consente di individuare molte “linee” diverse. La Piattella mi racconta con un certo vanto che questo ha un significato ben preciso: probabilmente l’area pisana è quella in cui quel tipo di fagiolo è arrivato poco dopo la scoperta dell’America e da allora la diffusa coltivazione ha facilitato il formarsi di tanti tipi diversi. La Piattella Pisana si inorgoglisce quando mi spiega che si trova rappresentata su una delle porte del Duomo di Pisa. E ‘ una porta di fine ‘500 – inizio ‘600 che testimonia come in poco più di un secolo questo fagiolo fosse divenuto importante per l’economia pisana: le golene dell’Arno a monte di Pisa dovevano essere il luogo ideale di coltivazione. Il problema di oggi è che la forma è poco presentabile, lui è troppo curvo per stare ordinato nelle cassette del supermercato. Così solo un plotoncino di anziani buongustai sparsi tra Pisa e Livorno lo consumano. Prima di congedarmi dalla Piattella non posso non salutare una persona davvero speciale che è un nostro amico comune: il Professor Pardini della Facoltà di Agraria di Pisa, oggi in pensione, ma qualche anno fa mio relatore di tesi. 82 anni e ancora in ballo nella ricerca sul campo! I miei complimenti a lui!
Di fagiolo in fagiolo e senza cambiare troppo il nome, incontro la “Piattella Canavesana“. Lei viene dal torinese ed è scesa fin qua con una bellissima fotografia. La ritrae abbarbicata su per le piante del mais, il granturco, sulle quali ancora oggi cresce. Un legame antico che fa sognare una discendenza direttissima dai primi fagioli arrivati dalle Americhe e che sembra trovare conferma in alcune caratteristiche delle proteine che contiene, per la precisione degli enzimi, particolarmente affini alla qualità originale mesoamericana. Quando cade nella pignatta con le cotiche di maiale speziate con sale e pepe, questo fagiolo sembra dare il meglio di sé. E pensare che negli anni ’80 del secolo scorso ha corso il rischio di scomparire!
Vengo attratto da una tavoletta di cioccolato “Thalia” con nocciole intere e mi chiedo cosa ci faccia in mezzo a tanti fagioli venuti da tutte le latitudini del nostro paese. Scopro così che dalle parti di Palermo, c’è chi ha recuperato un’antica varietà di nocciole e, tanto per non perder tempo, si è dedicato pure al salvataggio del “Fagiolo Badda di Polizzi“. Si fa per dare un esempio, mi dice il coltivatore che accompagna il fagiolo in questione, per dimostrare che “si può avere un lavoro che rende liberi” ritornando alla propria terra. Gli occhi degli anziani contadini brillano a vedere quei pochi campi in cui a fasola a badda è tornata e la speranza cresce quando la domanda tipo che viene rivolta ai coltivatori evolve dal “chi ve lo fa fare?” al “come si fa a farlo?”.
Mi sposto davvero di poco (si fa presto a dirlo quando si è tutti in una stanza) per incontrare il “Fagiolo cosaruciaru di Scicli“. Siamo in quel di Ragusa, una terra per me davvero lontana e sconosciuta, dove una decina tra anziani e giovani (“ma di ventenni non se ne trovano”) stanno salvando un fagiolo caduto nel dimenticatoio. La “cosa dolce”, questo significa cosaruciaru, è stata soppiantata dalle serre in cui si producono ortaggi e si è rifugiata in pochi orti. Da lì è partita alla riscossa. La produzione è ancora modesta e va poco oltre il consumo in famiglia ma quel che avanza va alle botteghe locali. C’è ancora un lavoro da fare, però: superare quella circospezione che caratterizza gli sguardi verso fave e fagioli, il cibo dei tempi poveri. Il “Fagiolo cosaruciaru” mi guarda e dice: “Voi toscani siete un modello, voi quest’idea l’avete già superata da tempo”. Non lo so se è così, ma minestre e minestroni ricchi di legumi, in effetti, si trovano in molti ristoranti e anche in qualche mensa scolastica.
Se Toscana dev’essere, tra i fagioli toscani presenti, mi si fa avanti il “Fagiolo rosso di Lucca“. Siamo conterranei e passiamo molto tempo nei campi… ci capiremo di sicuro. Lui era rimasto in un orto e tutto è ripartito da un paio di chili di semi. Ci sono voluti 5-6 anni per arrivare alla produzione vera e propria di questo fagiolo lucchese. Si autodefinisce “fagiolo a tutto campo”, non solo da minestra. Lui è fortunato: anche se è all’inizio della sua nuova carriera, c’è una catena di supermercati che lo acquista quasi tutto. Lui guarda al mondo della ristorazione che potrà farne usi molto virtuosi e mi confida che c’è già chi lo usa nell’impasto della pasta e ne mette fino all’80%. Mentre lo saluto mi strizza l’occhiolino e mi dice che ha un’altra grande speranza: in questi tempi di crisi vorrebbe tanto aiutare quei giovani che non trovano (o perdono) il lavoro. Lui promette un grande aiuto, mentre loro dovrebbero scommetterci un po’.
Intanto c’è in “Fagiolo di Sorana” che si fa avanti. Lui sta già facendo i conti e sembra che chi lo coltiva possa riuscire a pagare sia il proprio lavoro sia un po’ del rischio di impresa. Ma chi lo ha riportato in auge si è mosso non tanto per soldi, sebbene questi siano lo stimolo per coinvolgere nuovi (giovani) produttori, ma per il territorio e per un ideale. Il “Sorana” è tornato dei ghiareti lungo fiume per opera di una decina di amici che dopo una cena illuminante decisero di sottrarre all’incolto questi spazi da sempre capaci di dare soddisfazioni a chi coltiva questo magico fagiolo. Non sappiamo se in quella cena fu consumata carne, ma l’ideale che sta dietro il salvataggio di questo legume è (anche) quello di tornare alle proteine di origine vegetale, sia perché buone, sia perché dietro al massiccio consumo di carne si celano tanti problemi ambientali e anche qualche remora etica sulle modalità di quell’allevamento intensivo che a molti sembra irrinunciabile.
Passo dai “ghiareti” fluviali alle sponde del Lago Trasimeno per incontrare la “Fagiolina del Trasimeno“. Non fatevi ingannare dal nome: si tratta di “Vigna unguicolata”, un legume nativo d’Italia consumato già dagli Etruschi. Una lunga fama, poi il declino con l’avvento del fagiolo d’America. Declino ma non scomparsa: quella arriva nel dopoguerra, quando tutto cambia. E’ nell’anno 2000 che da un pugno di semi risorge questo legume per mano di un manipolo di coltivatori eroici: in tutto sono 5! Lo si coltiva “perché vale la pena mantenere un sapore della nostra storia nonostante la fatica” e anche perché è la risposta slow al fast ma anche il “fagiolo” più fast, dato che non richiede ammollo. Questa caratteristica potrebbe decretarne il successo.
Siamo in Umbria e questa sembra una terra ribelle, vocata a qui legumi che fagioli non sono. Incontro, così, la “Fava cottòra dell’Amerino“. Anche lei ha corso il rischio di scomparire a causa dell’abbandono del dopo guerra. Anche dietro di lei c’è un’associazione fatta di pochi eroi, alcuni produttori “per la propria famiglia”, altri pronti per il mercato. Con un pizzico d’orgoglio, vi dico che ci sono delle agronome che scommettono molto su questo legume. Lo fanno per amore della propria terra, per salvare il sapore che ha dato proteine ai loro nonni, lo fanno per sfuggire alla tentazione di andare in cerca di lavoro altrove. Lo fanno anche perché la terra in cui vivono esalta una caratteristica di questa fava: non c’è bisogno di decorticarla prima di cucinarla è si cuoce facilmente. Mi assicurano che fave lessate e grasso di maiale sono un abbinamento straordinario.
Dalla provincia di Terni passo agevolmente in quella di Perugia ma c’è un’impennata: si sale a oltre 1200 metri di quota sull’Appennino. Questa volta mito, poesia, eroismo e un pizzico di fortuna si mescolano per salvare un legume di cui si era davvero persa ogni traccia. “Lo sai che le donne non lasciano andare mai un seme”, mi dice una delle salvatrici del legume in questione. “Da un barattolo abbandonato in una casa terremotata abbiamo tolto 3 etti di un seme che nessuno riconosceva. L’abbiamo seminato e qualche anziano ha riconosciuto la “Roveja”, un pisello selvatico una volta molto coltivato. L’Umbria deve essere una terra di agronomi se è vero che intorno al 1450 proprio un agronomo, tale Corniolo della Cornia, la cita come ingrediente della farrecchiata (da “sfarrare” che significa macinare), un piatto già antico all’epoca. Si tratta di una polenta di roveja condita con soffritto di alici, aglio e olio che si consumava (solo) durante la Quaresima. E’ il 1999 quando i semi del barattolo finiscono nel campo e oggi la “Roveja di Civita di Cascia” sta diventando una realtà interessante, un legume che potrebbe consentire ai molti figli di questo paese d’alta quota di non lasciare la propria terra.
Ormai sono inebriato e non mi rendo più conto del giro che sto facendo. Credo di essere al termine quando incontro il fagiolo dal nome più “problematico”: è il “Dente di Morto di Acerra”. E’ sanguigno e diretto nel suo parlare e me lo dice subito: “Tu lo sai perché conosci Acerra, vero?”. Sono disorientato ma la risposta è positiva anche se le ragioni non lo sono altrettanto. Questo fagiolo tosto non ci gira troppo intorno, è chiaro, e dice di aver preteso che nel suo nome ci fosse quello del luogo perché non si può fingere che non esistano i problemi. Al contrario, bisogna parlarne per poi risolverli. E lui crede di poter avere un ruolo nella soluzione. Lui che richiede tanto lavoro di zappa, una zappa troppo spesso dimenticata e arrugginita che può tornare lucida. Non “può” ma “deve”. Deve perché con la zappa arrugginisce la terra e anche la società. E, come dice Petrini, sarà quella zappa a salvare il mondo. In mezzo a tanti discorsi importanti, a considerazioni sulla comunità dell’agricoltura, su una distinzione di ruoli che serve ad unire e non a dividere chi fa agricoltura, che unisce chi usa la zappa con chi usa la penna (o la tastiera), io faccio la domanda da cretino. Con un nome del genere è difficile non farla: “perché dente di morto?”. Lui con un sorriso mi risponde che “di preciso non si sa”. “Forse” – prosegue – “mi chiamo così per il mio colore avorio”. Oppure perché se mi si cuoce senza ammollarmi divento duro come un dente”, chiude con fare serio. “Quando scrivi”, mi dice, “dillo che non sono l’unico frutto buono della mia terra”. E’ così: cresce vicino ad altri ortaggi, ai pomodori e alle Papaccelle, un tipo di peperone dalla forma davvero singolare e dal sapore reso forte dell’aceto e dal sale che lo conservano.
Mentre lo saluto mi ricordo che stavo per dimenticare un ringraziamento e una sottolineatura.
Il ringraziamento lo devo ad Antonella Giusti che mi ha invitato alle Fagioliadi e alla Condotta Slow Food “Lucca, Compitese e Orti Lucchesi” che ha organizzato la manifestazione. La sottolineatura è che tutti i fagioli e i legumi coraggiosi che ho incontrato fanno parte della famiglia “Presidi Slow Food“, un gruppo più ampio di specie agricole coraggiose che non vogliono scomparire ma sopravvivere in un mondo “buono, pulito e giusto”. E io sono con loro!