Non se lo aspettava, sinceramente, Fred Kudjo Kuwornu, il ragazzone di quarant’anni italo ghanese regista del documentario “Inside Buffalo” e così, quando ha aperto quella lettera è rimasto fermo, bloccato per un bel po’.
No, non se lo aspettava e così vedere la firma di Barack Obama, presidente nero degli Stati Uniti in calce a quella lettera che si apriva con il timbro a secco della White House lo ha lasciato ammutolito, per un bel po’ roba di minuti, così, fermo impalato, con la lettera in mano e gli occhi increduli su quella firma, su quel timbro, su quelle parole che andavano a comporre una lettera breve ma intensa: “Caro Fred, questa è una piccola nota per ringraziarti del tuo gentile regalo. Nonostante i tanti ostacoli i Buffalo Soldiers servirono la Patria con coraggio, preparando la strada alle future generazioni. Nella Seconda Guerra Mondiale esemplificarono il loro eroismo collaborando alla liberazione di un continente dalla tirannia, cambiando il corso di un intero secolo . Spero che tu sia orgoglioso nell’impegno che ti sei preso per promuovere e onorare la loro Memoria . Grazie ancora per il tuo toccante gesto, ti auguro tutto il meglio. Barack Obama”.
Sì, tutto vero. Letta una due tre volte. Tutto vero. È stata, anche se è superfluo dirlo, una grande emozione, una cosa di cui andare orgogliosi, a testa alta. Una lettera significativa, importante. Inattesa e per questo ancora più portatrice di emozione e orgoglio.
Di riconoscimenti in questi anni ne ha avuti tanti: dalle proiezioni al Pentagono e al Library of Congress alle parole di lode di Bill Clinton e Giorgio Napolitano. Per dirne solo alcune. Ma questo ha una valenza particolare e lo si capisce tra le righe della lettera che è tutto fuor che un semplice gesto formale. C’è una gratitudine sincera e vera tra quelle parole, non ci vuole molto a capirlo. Non c’è niente di fittizio. È nel suo piccolo un simbolo dei tempi che sono cambiati. In quel ringraziamento c’è la gratitudine di chi ha combattuto e combatte una battaglia ed è riconoscente a chi si aggiunge alle sue file volontariamente. E così il presidente nero, l’uomo del riscatto gli scrive per ringraziarlo, firmando di suo pugno.
È la realizzazione di quel sogno proclamato a gran voce dal pastore protestante. Aveva visto giusto nel suo sogno visionario: oggi, finalmente, “sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi” siedono “insieme al tavolo della fratellanza”.
Oggi “perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione” si è trasformato “in un’oasi di libertà e giustizia”.
Oggi la Speranza e la Fede di quel visionario si sono realizzati, con tantissime sofferenze ma si sono realizzate. La gioia di oggi però non ha cancellato le cicatrici di ieri che seppur, per fortuna, non si sono riaperte, però bruciano, fanno ancora male richiamano ombre e fanno risalire le lacrime agli occhi. Ecco allora che non ci vuole molto per leggere tra le righe, sintetiche, una forte emozione e sensibilità data dalla consapevolezza della propria storia e dell’importanza della Memoria. Già, l’importanza della Memoria. Ne abbiamo parlato spesso e anche per questo motivo abbiamo creato questa rubrica.
Ci crediamo. Siamo convinti che sopratutto oggi la Memoria passi attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e non sia più fatta di racconti davanti al focolare ma bensì di nuove tecnologie che sembrano perfette per raccontare e tramandare certe storie.
La storia di Inside Buffalo lo dimostra: un documentario che da anni ormai attraverso piccole e grandi presentazioni e accende l’interesse sulla Divisione Buffalo, raccontando la storia di una doppia guerra combattuta dai buffalosoldiers: contro i nazisti e contro i loro ufficiali razzisti. Una doppia guerra come quella del sergente Ivan J. Houston, che a settembre con sua (e nostra) grande gioia è tornato nei nostri luoghi, dove aveva combattuto, dove era iniziato il suo riscatto.
Sembra impossibile ma è così: è una storia intimamente legata al nostro territorioi: il riscatto nero partì (anche) dalla Lucchesia, dalla Versilia e dalla Valle del Serchio dove in un lontano e gelido Santo Stefano del 1944 in un paesino arroccato sulla montagna barghigiana dal nome evocativo e caratteristico, Sommocolonia, i soldati con il bufalo sul braccio combatterono (al di là di alcuni racconti insinuanti e calugnosi) con coraggio e eroismo. Un gesto su tutti quello del Tenente Fox che asserragliato nella Torre del castello chiamò a sé il fuoco dell’artiglieria.
Morì per permettere alla battaglia di prendere una svolta decisiva. Un gesto che a distanza di anni gli valse la Medal of Honor, il più alto riconoscimento di guerra americano, dato dopo tanti (troppi) anni. Ma dato. E alla fine va bene così. L’Italia, nel suo piccolo, era stata anticipatrice, l’Amministrazione barghigiana infatti aveva fatto erigere un cippo alla sua memoria grazie, soprattutto, all’acutezza e all’intelligenza di Umberto Sereni, il Professore.
Lo stesso che anni dopo, quando il giovane italo ghanese gli si presentò, non esitò un attimo nel sostenere e cercare finanziamenti per realizzare quel documento in memoria dei soldati neri che dall’Alabama erano saliti sui nostri monti a combattere tra i castagni. Finanziando così un opera importante e facendosi pubblicità, può sembrare brutto e di basso livello, ma il documentario è stato, anche, un biglietto da visita per molti turisti appassionati di storia che nei mesi successivi sono tornati sui luoghi della battaglia: in Versilia, sulla Linea Gotica, su a Sommocolonia dove è nato un piccolo ma importante Museo della Pace fortemente voluto da Vittorio Lino Biondi, (un altro tassello importantissimo per la realizzazione del documentario e l’opera di memoria), ufficiale dei Paracadutisti, massimo esperto dell’evento bellico a cui ha dedicato il volume “La Battaglia di Sommocolonia” recentemente tradotto in inglese.
Insomma, anche così si fa “girare l’economia, anche così si crea lavoro”. In maniera intelligente.
Ci vogliono però persone che sanno guardare oltre, proiettati al domani perché solo chi al di là di un apparente pessimismo lotta per il futuro. Ecco perché nei prossimi mesi – quando probabilmente la troupe della Pacific Film Foundation tornerà nei nostri luoghi per girare la docu-fiction “Good Giants” – dobbiamo farci trovare pronti.
L’occasione è da non perdere, sperando che certi nostri amministratori e concittadini, speriamo, non si facciano riconoscere. Anche qui, ci sembra abbastanza logico (ma forse per alcuni non lo è) che la produzione americana porterà, occasioni di lavoro (seppur momentaneo) e, sopratutto, visibilità internazionale con un notevole ritorno turistico.
Ma soprattutto dobbiamo sostenere la produzione americana per “fare Memoria”, quella giusta, quella vera. Glielo dobbiamo a quei ragazzi partiti dall’Alabama, dal Texas, dal Missisipi, dalla California e venuti a combattere “i lupi grigi” tra la neve delle nostre montagne.
É una storia anche nostra.
E Fred? Lui, va avanti con i suoi lavori portando avanti il progetto per il 18 Ius Soli ( tra l’altro è in programma la realizzazione di un documentario su Mario Balotelli) gira l’Italia in attesa che a settembre per una serie di proiezioni in occasione dei 70 anni dello sbarco degli Alleati mentre fa ricerche su James Senese musicista napoletano figlio do un soldato della Buffalo. Un altra storia che lega Italia e Stati Uniti.
Un’altra storia di Libertà e Sofferenza, di Riscatto.
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