Voleva fare il marinaio, invece si è ritrovato a fare il giornalista, inviato di guerra sui fronti “caldi”. Ex Jugoslavia, Somalia, Iraq, Afghanistan, le guerre degli ultimi trent’anni, Toni Capuozzo, le ha raccontate tutte.
Ma non chiamatelo “inviato di guerra”, lui, dice, è semplicemente un “cronista” e la butta sull’ironia: “essendo di origine napoletana, sono anche un po superstizioso: descriversi come “inviato di guerra” porta un po’ sfiga”. Anche perché crede nell’importanza delle parole: “Alcune sono troppo usate, senza dare loro il giusto peso, le consumiamo come degli attrezzi. Parole come “odio”, “amore”, “pace” per esempio non c’è persona che possa “amare” la guerra”.
Capuozzo, oggi, è stato, giustamente, insignito del Premio Arrigo Benedetti Città di Barga.
Laureato in sociologia all’Università di Trento ha iniziato la sua attività giornalistica su “Lotta Continua” dopo aver fatto lo scaricatore, l’operaio in fonderia e l’insegnate. Ebbi modo di incontrarlo nel 2012, a Forte dei Marmi, alla presentazione, organizzata da mio padre, del libro “Capuozzo accontenta questo ragazzo” in ricordo di Giovanni Palatucci, il poliziotto che durante la guerra, contravvenendo agli ordini del regime, aveva salvato centinaia di perseguitati.
Il Capuozzo, nominato nel titolo del volume, era il padre (un napoletano trapiantato a Fiume), anche lui poliziotto, che era stato suo collaboratore e aveva raccolto l’ultimo messaggio del funzionario che, già sul vagone piombato che lo avrebbe condotto a Dachau (in un viaggio di sola andata). affidava al collega un ultimo messaggio: avvertire la madre di un ragazzo che era stato arrestato assieme a lui.
Quell’incontro, nel ricordo di un uomo giusto, fu l’occasione per una breve intervista, mentre lui, disponibile, mangiava un gelato, dopo aver fumato l’ennesima sigaretta. Mi spiegò che non era portato per fare il docente così era partito per il Nicaragua “in cerca di materiale incandescente da proporre a un giornale. La notizia, però, era ormai vecchia. Ciò nonostante mi incoraggiarono per il lavoro svolto e mi ritrovai a raccontare battaglie per un’ altra testata. Da lì sono diventato per tutti un cronista di guerra”.
Anche perché il giornalista era un buon compromesso per unire le sue due passioni: lo scrivere e il viaggiare. Giovanissimo aveva, infatti, sognato di solcare i mari a bordo di una nave: “forse perché , da piccolo avevo, sempre, visto mia nonna viaggiare, salire e scendere sempre dai transatlantici e mi aveva tremendamente affascinato”.
Tra i tanti illustri personaggi intervistati e incontrati quello che gli era rimasto più dentro mi disse è Jeorge Louis Borges incontrato durante la guerra delle Falkland”. L’evento storico, invece, la strage al mercato di Markale, il 5 febbraio 1994, a Sarajevo. 68 morti e un centinaio di feriti. C’era anche lui a testimoniare quella mattanza. Una delle tante stragi che hanno segnato il “Secolo Breve”.
“Si racconta la guerra- mi spiegò- per liberarsi dal dolore di ciò che si vede, come quando abbiamo un segreto, lo custodiamo, ma appena lo raccontiamo a un amico, o ai genitori, ci sentiamo un po’ sollevati. In fondo si insegue l’illusione che far conoscere la sofferenza della guerra sia un modo per fermarla”.
La guerra mi chiarì ancora meglio, gli aveva insegnato a dare il giusto valore alle cose e a ripensare agli insegnamenti ricevuti in famiglia:“Mio padre era uno che conservava anche i chiodi storti: io mi sono accorto che ciò veniva proprio dal fatto che aveva vissuto la guerra. A posteriori ho apprezzato questa sua parsimonia. Ho capito inoltre la fortuna che ho avuto ad andare a scuola, pensando alle bambine afghane per cui tutto ciò è stato una conquista faticosissima e ancora non consolidata.
Le guerre ci fanno capire come siamo viziati e la fortuna che abbiamo. Ogni guerra mi ha lasciato qualcosa, e tutte insieme mi hanno insegnato quanto sia importante la pace, e quanto valore abbiano le piccole cose che ci circondano: la quiete che diamo per scontata, i soldi che ci permettono di andare a mangiare una pizza, la tranquillità di una passeggiata e persino la noia di una grigia domenica di pioggia”.
Article by Nazareno Giusti