Aveva il fisico del brigante maremmano, alto, possente, il torace grande. Aveva gli occhi stretti, due fessure che si andavano stringendo più gli anni passavano a causa delle risate e di qualche rara lacrima, amara. Aveva i capelli e la barba da seguace di David Lazzaretti o da profeta biblico. “Ne interpretai uno, per un film Rai di Gregoretti, L’assedio di Firenze. Era il ’75. Salii sul pulpito, in una Chiesa vera: finzione pura, ma la gente mi ascoltava e aveva paura sul serio”.
Era così Carlo Monni, toscano anche nel fisico. Lo si poteva trovare alle Cascine, “a battere come le prostitute” come ironizzava Massimo Ceccherini. In casa non ci poteva stare: “Mi rompo i coglioni”, stava in Via dell’inferno e il suo ultimo spettacolo si intitolava “Monni all’inferno”. Strano destino.
Non si era sposato: “Non ancora, per fortuna. Così posso andare a passera”. Poi diceva: “L’amore è cieco, non puoi farci niente. Guarda anche questo qui (indicando un suo amico, ndr). E’ innamorato da anni di una maiala, e lo sa che è maiala, ma mica la lascia”.
Era un toscanaccio maledetto. Ha scritto Marco Rovelli in un bellissimo pezzo su il Fatto Quotidiano: “Carlo incarnava quello spirito terragno, sanguigno, beffardo, irridente della toscanità più vera, la poesia della terra e del vino, degli alberi e delle donne”.
Amava il Monte Morello, “sopra Sesto Fiorentino, dove andava a smaltire le sue pantagrueliche mangiate e bevute” e amava il vento che “portava direttamente nel cervello il senso di libertà” come diceva Remo Cambi, ciabattino e anarchico a cui bastava di fare tre paia di scarpe alla settimana, niente di più. Il resto del tempo serviva per vivere: con cui fare merende, scampagnate, scherzi, mangiate.
Un po’ come lui che ieri alla fine ha messo le ali e se ne è andato. 70 anni non ancora compiuti. Ha messo le ali nonostante in un famoso monologo pensava che quelli come lui nascessero bruchi e bruchi morissero come diceva in un celebre monologo in “Berlinguer ti voglio bene”.
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Interprete di personaggi che seppur secondari sono divenuti delle icone come il padre di Alessandro Paci in “Lucignolo”.
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O comeil Vitellozzo che voleva morire come “i’bbabbo” in “Non ci resta che piangere”. Di quei giorni aveva ricordi indimenticabili.
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Definiva Roberto Benigni “un genio”; “uno scienziato della comicità”. Anche se nel gennaio 2012 confessava a Andrea Scanzi: “Eh, ora lo chiamano in Parlamento, parla dell’Inno. Il discolo non lo può più fare. Il successo ti rovina. Non sei più libero. Secondo me, in cuor suo, Benigni si diverte parecchio meno. L’ho perso di vista dopo Non ci resta che piangere, quando sono tornato a Firenze”.
Sicuramente però tra tutti i comici toscani si sentiva più vicino a Benigni e Ceccherini che a Giorgio Panariello e Leonardo Pieraccioni: “loro sono accomodanti, non hanno ‘svettature’. E’ il gruppo di Aria fresca, di Carlo Conti: c’entro poco”.
Ma il Monni non era solo questo era molto di più, la sua parte più vera, più genuina era a contatto diretto con il pubblico, in teatro, nelle piazze, nelle Feste dell’Unità dove era nato e cresciuto.
Amava Dante, profondamente. Confessava: “che senso ha fare Pirandello? Per vedere ‘icchè?”. Diceva. Allora recitava il Sommo Poeta. “Lo fa meglio di Benigni” scrisse Ivan della Mea sull’Unità.
Indimenticabile la sua prova nel 2007 alla Cava Barghetti di Seravezza, dove l’attore fiorentino Carlo Monni recitò alcuni canti dell’inferno, tratti dalla Divina Commedia, per la produzione estiva dell’associazione Evocava, laboratorio di arte contemporanea noto per il recupero e la decennale attività della Cava Borella a Vagli e di Cava Barghetti. “Monni all’inferno” fu il titolo della performance, costruita sull’integrazione tra interventi musicali ad hoc e la gesticolante recitazione dell’attore, prodotta dall’associazione Evocava nell’ambito del “Cantiere D’Arte Seravezza”, e organizzato dal Comune di Seravezza con il sostegno della rete regionale per l’arte contemporanea.
Scrive sempre Rovelli su Il Fatto: “Decantava la Divina Commedia come sette secoli prima di lui avevano fatto i contadini toscani che si erano appropriati di quella divina lingua volgare, e se la tramandavano di padre in figlio, di memoria in memoria. Intendendo proprio che nel suo recitare, anche storpiando a volte il sacro verbo dell’Alighieri, conservava quella secolare tradizione popolare in modo mirabile. E forse anche per questo Monni è restato ai margini, diversamente da Benigni che si è involato verso successi mondiali”.
Il toscano arcaico gli usciva fuori, spontaneo, nelle parole, nei dialoghi come quando diceva “vado a desinare”, “prendo il tramvia”, “mi reco a teatro”. Amava Leonardo da Vinci che non aveva mai interpretato e di era solito ricordare un aneddoto: quando gli chiesero come mai, attorno a Firenze, ci fossero tanti geni lui rispose: “sarà la sottilità dell’aria”.
Si era appassionato a Dino Campana e ai canti popolari. Cantava: “L’amore è come l’ellera, dove s’attacca more. Così, così il mio cuore… mi s’è attaccato a te”.
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Cercava la Toscana antica con i tramonti, le veglie, le piazze piene. Ammetteva: “dell’era contemporanea non ho preso niente, la terminologia e la tecnologia non mi appartiene. Kant diceva: è un grand uomo perchè sa vivere il suo tempo: io sono un bischero perché vivo nell’altro tempo!”