Procede, senza intoppi, la spedizione di Danilo Musetti in Alto Dolpo. Il viaggio patrocinato dal Cai Garfagna e seguito dal nostro giornale (dopo che l’anno scorso ha seguito l’esplorazione in Bhutan nel suo evolversi) rientra nel progetto “il Tibet fuori dal Tibet” per “documentare la vita si questi piccoli satelliti nei quali la cultura tibetana si è potuta mantenere intatta”.
Come promesso siamo qui a raccontarvi i primi dieci giorni del viaggio di Musetti (che comunica con noi attraverso un telefono satellitare) alla ricerca “del tempo perduto” tra “rarissimi esseri umani e quegli immensi giganti bianchi e quei paesaggi che aprono il respiro e che chiamano come irresistibili sirene chi ha una particolare vocazione”.
Dopo essere partiti da Milano i “nostri”, sono atterrati nel “caos organizzato” di New Delhi dove hanno preso un piccolo aereo per il Nepal da dove, il 5 ottobre, la spedizione è entrata nel vivo.
Il 6 ottobre è stata una giornata di acclimatamento all’altitudine a Nepalgani, la cittadina ben oltre ai 2000 metri dove Musetti e la sua squadra sono atterrati. Per sgranchirsi le gambe hanno fatto una passeggiata fino a Regi Gain, che si trova oltre i 3000 metri. Il giorno dopo, alla fine di una lunga tappa in quota, il gruppo è arrivato al lago Poksundo con il suo colore cobalto fermo, senza increspature.
“Ho un conto aperto con questo lago” ci ha raccontato. “La volta scorsa non ho potuto filmarlo come volevo perché qui, dopo che Eric Valli ha fatto le riprese di Himalaya, una telecamera professionale è diventata sinonimo di un possibile lauto guadagno. La volta scorsa ho dovuto usare una piccola telecamera ed il risultato non è stato quello che volevo, ma ora ho un XF100 della Canon, che in un piccolo spazio ed un peso di un solo chilo mi permetterà di fare riprese di altissima qualità senza che nessuno sospetti niente”.
Il lago sembra rappresentare lo specchio della tradizione buddista. Nessuno l’ha mai navigato e sembra quasi che a guardarlo sia lui a poterti leggere dentro o che sia uno strumento che ti permetta di farlo.
Il 9 ottobre è stato il giorno di una tappa “spettacolare”: in circa 4 ore, di buon passo sono passati ancora vicino al lago e poi hanno piantato le tende più avanti, oltre i 3600 metri, nel nulla più assoluto.
“C’è in tutti noi- rifletteva quella sera Danilo– la sensazione di essere entrati nel vivo di questo viaggio assoluto”.
Il 10 ottobre giornata impegnativa, in verticale, con un campo a ben 4600 metri, ai piedi della catena del Khang la, imponente sistema montuoso lungo 4200 chilometri che comprende le vette più alte del mondo.
“Da dove siamo noi la vista è grandiosa ed è il premio migliore per tanta fatica. Credo che in alta quota i cattivi pensieri non abbiano più cittadinanza e gli uomini trovino il modo di dare il meglio di loro stessi, tutta la storia dell’alpinismo ne è testimonianza, salvo rari esempi che sono le eccezioni che confermano la regola. Un tempo certe spedizioni dovevano rispondere ai loro governi e oggi certi alpinisti devono rispondere alle logiche commerciali si aziende sempre meno generose, ma noi siamo liberi da record da fare e non dobbiamo rispondere che a noi stessi”.
Il giorno seguente è culminato nei 5375 metri del paso Kang la. “Perché mai gente che deve combattere e vincere la sua battaglia quotidiana per avere almeno il minimo che serve per alimentarsi e dar da mangiare alla propria famiglia, dovrebbe spendere un briciolo di energia per costruire un edificio apparentemente senza uno scopo pratico come un tempio?”
Si chiedeva Danilo la sera prima di giungere a Shey gompa, nel cuore del Dolpo interno, a 4500 metri di altezza.
“La prima volta che ho letto in un libro di questo luogo avevo in mano quello che Peter Matthiesen scrisse negli anni ’70 dopo essere giunto sin qua, tra i primi occidentali a farlo. Il libro si chiama “Il leopardo delle nevi”, in onore al più favoloso degli abitanti del Dolpo, un felino la cui esistenza è stata comprovata da immagini non molto tempo fa”.
Shey Gompa faccia parte della setta Kagyu. Qui la disciplina ascetica e la scarna dottrina favoriscono lunghe e solitarie meditazioni. Qui si dà importanza più all’esperienza intuitiva, essenza più pura del buddismo, che all’ornamento sacerdotale. La gente che abita il villaggio è di pura stirpe tibetana e ci accoglie con sorridente diffidenza.
Attraverso un altro passo sono, poi, arrivati al monastero di Namgung. “Qui– ha spiegato Danilo- mi è diventato più chiaro anche la funzione dei monasteri e cioè quelle di essere punti tappa delle grandi migrazioni, non diversamente da quella dei monasteri benedettini sulle Alpi”. Il 13 ottobre è stato dedicato alla scoperta dei villaggi: da Namgung a Karang, Sibuk e Marang.
“E’ impressionante vedere come ogni singolo fazzoletto di terra sia accuratamente coltivato, l’acqua gestita con parsimonia e come tutto venga armonizzato con i cicli della natura”.
Il giorno seguente una parte del gruppo, quelli che sono richiamati al dovere in patria, si sono staccati per far rientro in Italia. “La montagna affratella. Vivere insieme cose che si condividono ti permette di conoscerti nel profondo. Vederli andare via sarà una strana sensazione, ma so che a casa ci ritroveremo e sarà bello ricordare. Andrà con loro una delle nostre guide, in modo che il rientro possa svolgersi nel modo più sicuro possibile”.
A proposito di amicizia e “affratellamento” Danilo ha voluto ricordare l’amico Pierluca con il quale porta avanti il progetto “Il Tibet fuori del Tibet”: “Lui non è con noi perché una grave malattia, la sclerosi multipla, lo costringe sulla sedia a rotelle. Non ha rinunciato a viaggiare, ma non può certo affrontare un trekking. Io sono qui e cammino anche per lui, ogni mio passo è nostro. Soche lui è un guerriero e me lo dimostra sempre con la sua intatta allegria e la sua voglia di guardare avanti”.
Il 15 ottobre il viaggio è proseguito nell’itinerario che lega insieme i grandi monasteri.
“Entrarci dentro è emozionante ogni volta, perché si ha l’impressione di essere nel punto di congiunzione tra due mondi, di poter chiedere qualcosa anche senza nessuna certezza di ottenerla. La pace dello spirito è quello che i tibetani chiedono, di passare attraverso questa vita per arrivare all’illuminazione”.
Il 16 ottobre tappa di circa sei ore. Da Mishagaon a Chanpola Goth, nei pressi di Shimengaon attraverso i 5030 metri del passo di Muri-la. “L’acclimatamento ci ha permesso di tenere un buon passo, anche se la stanchezza di tutti questi giorni passati a camminare in quota inizia a farsi sentire. Proprio per questo il nostro itinerario prevede dei giorni in più che potrebbero servire in caso di giorni perduti per un qualsiasi motivo.
Ogni volta che dobbiamo attraversare un passo oltre i 5000 metri c’è un inconscio desiderio, l’attesa di vedere cosa ci sia di là. I panorami che si aprono sono molto simili, ma siamo allenati a vedere oltre all’apparenza e a scrutare bene tra le pieghe della montagna”.
Il 17 una dura tappa di 7 ore di cammino verso Tingjegaon. “Disponiamo di tutta una serie di permessi speciali che ci permetteranno di passare dall’Alto Dolpo al Mustang. I permessi ci sono stati dati dopo aver consultato la popolazione locale che li ha concessi solo dopo che il raccolto fosse messo al sicuro per evitare che il nostro passaggio potesse indispettire le divinità e comprometterlo. Ricordo di aver sorriso al pensiero a casa, ma qui non mi sembra una cosa così assurda. Il raccolto rappresenta da scommessa della vita e qui non tutto è nelle nostre mani. Che siano gli dei o il caso si deve sempre rispettare quella particolare forma matematica che la vita. Attenersi ad essa ed essere pronti ad accettare l’imponderabile, con un fatalismo necessario. Un insegnamento di vita difficile da mettere in pratica una volta tornati a casa. Ogni mondo pretende il suo tributo di accettazione, però le lezioni che si apprendono possono essere preziose per interpretare la vita”.
Il giorno seguente altre 7 ore di cammino per arrivare a Rapka.
“La gente che vive qui, priva di ogni bene di cui noi disponiamo, pensa diversamente e la loro esistenza è frutto di una scommessa che va vinta ogni giorno. Niente al di là del cielo, se non divinità lontane, ma qui il cielo raggiunge altezze tali che non c’è bisogno di altro. Questo è un viaggio che si rivela molto interiore. E’ da dentro che nasce la forza di andare avanti ed è l’anima che si abitua a sentire ciò che gli occhi vedono”.