 Proviamo ad immaginare una grande montagna ed un grande fiume. Dobbiamo immaginarli qualche milione di anni fa. Diciamo 20 o 30. Lei se ne stava lì gloriosa esposta al sole, al vento e alla pioggia, lui correva ai suoi piedi sornione. Di tanto in tanto, però, doveva agitarsi e diventare impetuoso. Passavano i milioni di anni e il fiume, con la collaborazione di altri agenti di erosione, poco alla volta smantellava la montagna. E’ fin ovvio dire che questo lunghissimo processo è iniziato dall’alto, con lo smantellamento progressivo delle rocce più superficiali. A noi persone comuni sembra impossibile, ma man mano che la montagna veniva erosa si alleggeriva e potenti movimenti facevano salire ciò che stava sotto di lei. Il fiume, incurante di tutto questo, continuava ad erodere e trasportare. I fiumi, si sa, sono fatti così. E non si fermano davanti a nulla, almeno finché ci sono piogge o nevi che li alimentano.
Proviamo ad immaginare una grande montagna ed un grande fiume. Dobbiamo immaginarli qualche milione di anni fa. Diciamo 20 o 30. Lei se ne stava lì gloriosa esposta al sole, al vento e alla pioggia, lui correva ai suoi piedi sornione. Di tanto in tanto, però, doveva agitarsi e diventare impetuoso. Passavano i milioni di anni e il fiume, con la collaborazione di altri agenti di erosione, poco alla volta smantellava la montagna. E’ fin ovvio dire che questo lunghissimo processo è iniziato dall’alto, con lo smantellamento progressivo delle rocce più superficiali. A noi persone comuni sembra impossibile, ma man mano che la montagna veniva erosa si alleggeriva e potenti movimenti facevano salire ciò che stava sotto di lei. Il fiume, incurante di tutto questo, continuava ad erodere e trasportare. I fiumi, si sa, sono fatti così. E non si fermano davanti a nulla, almeno finché ci sono piogge o nevi che li alimentano.
Mentre tentate di mettere a posto nella vostra mente tutte queste cose, spostatevi fino a Ruta, un paese posto sul promontorio di Portofino, in Liguria. Da lì si sale a piedi seguendo il sentiero che conduce a Portofino vetta. I liguri si sono inventati un segnavia molto semplice: un quadrato rosso. Voi seguitelo e, dopo aver fiancheggiato una delle chiese del paese (non è la bellissima Chiesa millenaria), vi ritroverete lungo una bellissima mulattiera.
Guardandovi attorno scoprirete un po’ di “confusione botanica”: elementi tipici della costa mediterranea (corbezzoli, lecci, ecc.) si mescolano ad altri tipici della montagna antropizzata (il castagno) e non mancano intrusioni dovute all’uso di alcune piante nei giardini e nei parchi, come i tassi e i lauri. Come spesso accade, in questa confusione incontriamo qualcuno che ci chiarisce le cose: uno splendido nucleo di lecci monumentali si lascia attraversare dal sentiero. I loro sussurri, se siamo in grado di sentirli, ci dicono che qualche tempo fa erano loro a far la parte del leone nella copertura forestale di questo lembo di costa. Uno strano lembo che sporge lungo la linea di costa che da Portovenere conduce a Genova.
Vi sarete ormai convinti di essere nel bel mezzo del bosco, lontano da ogni disturbo umano, quando alcune antenne inizieranno a far capolino, soprattutto se vi trovate lì in pieno inverno, quindi con gli alberi spogli. A chiarirvi definitivamente che siete lontani dalla wilderness ci pensano le singolari architetture dell’albergo Kulm, posto davvero a poche decine di metri da imponenti antenne della RAI. Sembrerà strano ma questo mix di tecnologia e linee architettoniche della prima metà del ‘900 hanno un proprio fascino.
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Procedendo oltre in direzione della località Pietre Strette e guardandosi un po’ attorno si nota che dopo un lungo tratto di percorso caratterizzato da rocce dall’aspetto omogeneo e regolare qualcosa cambia. Le rocce che affiorano sulla nostra destra sembrano un’accozzaglia di pietre piccole e tondeggianti, talora rotte o scalfite. Quasi non ce ne siamo accorti ma siamo ormai giunti dove l’antico fiume dedito allo smantellamento dell’altrettanto antica montagna depositava i ciottoli trasportati verso il mare. Fortunatamente la visita che ci ha spinti a scrivere questo articolo è avvenuta in compagnia di due docenti del DISTAV di Genova, i professori Elter e Faccini, e sono stati loro a svelarci molti segreti.
Ecco che quei ciottoli prendono il nome di clasti e che le loro rotondità diventano testimonianza di un prolungato trasporto fluviale.
Ma c’è di più. Questi primi clasti denunciano un’origine particolare: si tratta prevalentemente di rocce sedimentarie che si trovavano negli strati superiori della montagna ormai scomparsa. Ricordate l’esercizio di immaginazione proposto in apertura nel quale il fiume iniziava a smantellare la montagna iniziando dalle rocce poste più superficialmente? I nostri piedi stanno camminando dove i ciottoli nati da questo processo furono depositati in quella che i geologi chiamano un delta a conoide.
Riprendiamo il cammino e giunti il località Pietre Strette non possiamo non notare un improvviso cambiamento del paesaggio: ci troviamo tra pareti rocciose che chiudono ai lati la strada forestale lungo la quale stiamo camminando. Si tratta di rocce scure e fortemente verticali che stanno per svelarci altri segreti sull’antica montagna smantellata dal nostro fiume ormai pietrificato. Il passaggio ha una propria forte suggestione: nonostante ci stiamo muovendo lungo un percorso comodo, è ben chiaro che se qualcuno volesse tenderci un agguato lo farebbe proprio qui, alle Pietre Strette.
Le rocce hanno un forte sviluppo verticale e mostrano con fierezza le loro stratificazioni frutto del deposito di nuovi ciottoli (i clasti!) avvenuto in epoche successive. Dalla bocca del professor Elter escono parole come basalto, gabbro, granito. Apprendiamo che si tratta di rocce che si trovavano più in basso nella struttura della montagna e che hanno un’origine ben diversa: si tratta di antichi magmi che un tempo dettero origine ad un fondale oceanico. Ci perdiamo un po’ nella scala dei tempi ma quanto scopriamo ci dice molto sulle dinamiche che caratterizzano il nostro pianeta in tempi geologici: rocce formatesi sui fondali marini che si trovano in montagne smantellate da fiumi che le portano al mare i cui depositi ora formano un colle di 400 metri che strapiomba su un nuovo mare. E’ il pianeta che vive quello che ci si para davanti. E le sorprese non sono finite.
Mentre procediamo verso la località Felciara il professor Elter ci invita a salire lungo il pendio fino a raggiungere un grande masso. Dal masso sporge un clasto (ormai abbiamo imparato ad usare la terminologia giusta!) non molto arrotondato e caratterizzato da fini striature. Siamo di fronte ad una migmatite. Un nome difficile per una roccia che racconta un’infinità di cose. Lei ha subito un metamorfismo, cioè era un’antica roccia sedimentaria sottoposta a condizioni di pressione e temperatura che l’hanno parzialmente fluidificata per poi farla ricristallizzare. Tutto questo è accaduto quando si trovava a quasi 30 km di profondità circa 340 milioni di anni fa. Non basta: rocce di questo tipo si trovano solo nell’area di Savona, in Corsica, Sardegna e Calabria. Questo apre nuovi scenari sull’intero processo di nascita delle Alpi e degli Appennini. A noi basta per rimanere a bocca aperta davanti a quel clasto che a breve diventerà uno dei tesori protetti dal Parco di Portofino.
Mentre chiudiamo l’anello che ci porterà in località Bocche e da qui di nuovo verso Pietre Strette, ci fermiamo di nuovo. Una grossa roccia ai lati del sentiero contro la quale avremmo corso il rischio di inciampare ci rivela le rocce del verrucano, a noi care perché prendono il nome dal Monte Verruca, nel gruppo dei Monti Pisani. Chiariamo subito che questo non è lo stesso verrucano che troviamo poco sopra Calci (PI), ma a noi toscani basta per esser felici.
Anche in questo caso c’è la sorpresa nella sorpresa: nel grande ciottolo del verrucano (un’anagenite) troviamo piccoli clasti quarzosi. E’ come se la geologia giocasse con le scatole cinesi!
Da questo punto in poi l’escursione fila via veloce, salvo brevi soste per ammirare il panorama sul mare e sulla costa arricchite dai commenti simpatici e colmi di competenza del professor Faccini. La morfologia della costa, le dinamiche connesse alle sorgenti, i movimenti franosi e i crolli sembrano non aver più segreti e quello che ai più pare un bel panorama diventa una rappresentazione “vivente” della crosta terrestre che non sta mai ferma.
Nella discesa che ci riporta a Ruta non rimane che riflettere sull’imponenza di quei fenomeni lenti ma continui che portano alla formazione degli oceani, che fanno scontrare continenti, sollevare montagne che poi vengono gradualmente smantellate. E’ tutto questo che ci ha permesso di osservare rocce antiche di milioni di anni formatesi a decine di chilometri di profondità, poi elevate a formare montagne, quindi a costituire quello strato di ciottoli abbandonato dalle piene di un antico fiume. Quelle rocce si sono poi saldate e sono tornate di nuovo in alto a formare una sorta di cappello sulla parte alta del Monte di Portofino. Gli amici geologi le chiamano Conglomerato di Portofino, noi le abbiamo guardate con occhi pieni di meraviglia.
I pensieri nella testa sono vorticosi e una felce abbarbicata su una pietra di un muro a secco in lento disfacimento sembra sottolineare che di fronte a tutto questo i nostri passi sono davvero poca cosa. Ci consola l’idea che siano i passi di esseri pensanti e capaci di immaginare e comprendere cose accadute milioni di anni fa.
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Articolo tratto dal blog Itinerari e Sentieri curato da Emilio Bertoncini