Sono stati giorni intensi quelli della scorsa settimana per Ivan J. Houston brillante uomo di finanza americano in pensione che ha deciso di tornare qui, in Italia, nella nostra provincia e nel nostro comune dove venne a combattere tanti tanti anni fa. Aveva 19 anni mister Houston. Ora ne ha 87.
L’entusiasmo è lo stesso a cui si unisce l’orgoglio e la convinzione di aver fatto la cosa giusta. E così, nel tornare nei luoghi in cui combatté, questo signore americano, miliardario sostenitore della campagna di Obama, con un sorriso disarmante solo leggermente piegato nella sua imponente statura si è commosso come un bambino, come un uomo che certe cose le ha vissute.
L’emozione, c’era da aspettarselo, era forte e prevedibile. Il suo non era un viaggio qualunque ma un ritorno: un pellegrinaggio nel tempo e nell’anima.
Il cuore del vecchio militare aveva tremato di emozione e di gioia già il primo giorno quando, appena arrivato, era stato accolto dai figuranti della Linea Gotica della Lucchesia che gli avevano reso gli onori. “Siamo solo all’inizio” gli aveva sussurrato qualcuno all’orecchio.
Proprio così: il giorno dopo è stato portato a Pietrasanta dove fu ferito e poi, accompagnato dal Tenente Colonnello Vittorio Lino Biondi, qui a Barga e Sommocolonia, alla Rocca della Pace dove morì il tenente John Fox in un atto eroico che gli valse la Medal of Honor.
Anche Ivan ha avuto le sue medaglie e tiene le riproduzioni in miniatura orgogliosamente sul petto, all’altezza del cuore. Ce le aveva anche venerdì durante la presentazione a Villa La Dogana dove il professor Umberto Sereni ha parlato del suo libro “Black Warriors” un vero bestsellers oltreoceano un libro di “grande valore educativo” come ha sottolineato Sereni che ha poi spiegato: “é molto significativo che la presentazione avvenga qui, in quella che era la sede comando della divisione Usa. Gli italiani non si sarebbero mai immaginati che la guerra sarebbe finita qui, in Italia. Quella guerra annunciata nel lontano 10 giugno 1940 ma cominciata in Abissinia, per avere il nostro “posto al sole”. Una guerra contro i neri di Selasiè che sui giornali dell’epoca veniva raffigurato con l’anello al naso, vestito di stracci, i piedi scalzi. In un breve lasso di tempo l’Italia di Mussolini dichiarò guerra a un’infinità di Paesi. Tra questi anche gli Stati Uniti. Una dichiarazione che gli italiani non capirono. L’America era la terra della speranza, dell’emigrazione, della salvezza, quel paese straordinario di cui sapevano quanto basta dalle lettere dei loro cari”.
Fu lì, con quell’incomprensibile dichiarazione che il consenso di Mussolini e del fascismo iniziò lentamente, ma inesorabilmente a venir meno. Nessuno si sarebbe mai immaginato che a liberare gli italiani sarebbero stati i negri, la razza inferiore del presidente sulla sedia a rotelle.
Quei vigliacchi che venivano raffigurati nei manifesti, sparsi un po’ per tutta la Penisola, come stupratori delle italiche donne.
“Io che ho vissuto il 68 e il mito di Martin Luter King e Malcom X-- ha sottolineato Sereni- posso dire che l’emancipazione degli afroamericani iniziò con la partecipazione alla seconda guerra mondiale: grazie a quelle persone che dopo Pearl Harbor capirono che era l’occasione per cominciare al grande battaglia del riscatto”.
Sono poche le persone che riescono a capire subito certi eventi, che hanno il dono di vedere nel futuro. Houston è stata una di quelle.
Aveva 18 anni. Il suo mito era Joe Louis, il pugile, “Brown Bomber”.
“Voglio andare a combattere!” disse. Lo sapeva che era la grande occasione. E così si presentò per l’arruolamento. Lo addestrarono e poi lo mandarono nella vecchia Europa, quella che aveva visto sui libri di storia.
Andò a combattere contro i nazisti ma non solo. Quella dei Buffalo Soldiers fu, infatti, una guerra su due fronti: da una parte contro le forze dell’Asse e dall’altra contro il pregiudizio degli ufficiali bianchi. Contro un razzismo spietato: c’era addirittura spacci in cui gli ufficiali tedeschi prigionieri potevano entrare ma non loro.
“Non era solo una guerra sul campo- ha spiegato Houston- ma per noi soldati di colore anche una battaglia personale contro Hitler Mussolini e quelle odiose ideologie razziste contro la dignità e la libertà personale. I neri americani hanno combattuto e sono morti in ogni guerra dai tempi della Rivoluzione. Hanno anche combattuto e sono morti per ottenere la piena Cittadinanza. Durante la fine degli anni 30 influenti individui neri ed organizzazioni si levarono in risposta all’accusa che i neri erano troppo stupidi, pigri o indifferenti per servire in combattimento con i loro fratelli bianchi. Questi due esempi di stampa dei neri discussero e dibatterono per un equo trattamento in quei tempi, divenendo forti voci nella lotta contro il razzismo e la segregazione, esortando: “Date ai nostri ragazzi la possibilità di combattere.”
Ma non fu facile come ben raccontato dal documentario di Fred Kuwornu, presente all’evento, accolto a braccia aperte da Mister Houston.
Non fu facile ma, ha ragione Sereni, proprio lì cominciò il lungo cammino verso la Libertà del popolo nero. Proprio lì iniziò il sogno del pastore King.
È per questo che Mister Houston ha ritenuto giusto raccontare la sua storia.
“Questo libro- ha sottolineato il veterano- è rimasto in sospeso per 63 anni. Forse non sarebbe mai stato terminato se un amico comune, il procuratore J. J. Brandlin, non mi avesse presentato Gordon Cohn. che mi esortò a frugare nel profondo della mia memoria fino a riportare in vita i suoni, i profumi, i luoghi ed i sentimenti dei campi di combattimento italiani ed incorporarli nel testo dopo più di 6 decadi. Lyle Marshall, un altro soldato della Buffalo, che aveva letto una precedente bozza, mi ha incoraggiato a finire “una storia che deve essere raccontata”.
Una storia di dolore, di sangue, di fatica. Che pare quasi impossibile, forse, ai giovani d’oggi.
“Non potrò mai dimenticare- ricorda- la notte fra il 23 e il 24 agosto del 1944, quando ci preparammo ad entrare in combattimento per la prima volta. Riuniti sulla riva sud dell’Arno vicino a Pontedera, in Italia, non lontano da Pisa e dal Mar Ligure, eravamo un singolo reggimento di fanteria nera mai sperimentato, che faceva parte di un esercito statunitense segregazionista, piazzato a combattere contro la 16° Divisione Panzergrenadier Reichsfuehrer dell’esercito tedesco; esperti combattenti in ritirata, sotto il comando del Feldmaresciallo Albert Kesserling “il sorridente”.
Eravamo la squadra di combattimento di un reggimento di 4 mila uomini, principalmente neri del sud, con una modesta educazione. Eravamo ufficiali e uomini selezionati con l’incarico di preparare la strada al resto della 92° Divisione che avrebbe seguito le nostre orme. Tutti gli ufficiali di grado superiore erano bianchi e principalmente del sud, mentre gli ufficiali di grado inferiore erano neri, per lo più laureati. Eravamo arrivati a Napoli solo tre settimane prima. Il nostro incarico era quello di attraversare l’Arno e rompere attraverso la Linea Gotica. Eravamo inesperti e nervosi; nonostante tutto, non so come, non provavo paura”.
Stava cominciando una grande avventura.
“La nostra fu l’unica divisione di neri che combatté in Europa durante la seconda guerra mondiale. I nostri scontri contro le forze tedesche in Italia, durati più di 8 mesi, cominciarono sul fiume Arno, vicino al poco conosciuto paese di Cenaia e procedettero a nord attraverso Pisa, Lucca, Seravezza, le montagne dell’Appennino, Genova e la valle del Po”.
Poi finita la guerra se ne tornò in America.
“Andai a nord da solo- racconta- per cominciare il nuovo semestre all’Università di Berkeley. Tornai al dormitorio della Oxford Hall”.
Anni di sacrifici, di privazioni e umiliazioni per arrivare poi ai massimi vertici.
“Ho speso la mia intera carriera nel business assicurativo. Nelle successive sette decadi, sono stato direttamente partecipe all’integrazione di alcune delle più importanti corporazioni americane, nel movimento dei diritti civili, nel Concilio Cattolico Interrazziale, e nella United Way, e ho dato un aiuto significativo nel convincere i dirigenti delle più importanti assicurazioni sulla vita ad abbracciare una responsabilità sociale e collettiva” dice facendo un bilancio della sua vita con umiltà.
Una vita piena, in cui però sempre riaffiorava il ricordo di quei giorni in cui aveva vestito una divisa.
“Durante il passare degli anni, però, lentamente la guerra si affievoliva nella mia memoria. I miei amici più cari di quel periodo, i sei membri della squadra informativa, erano tornati alla vita civile, tranne qualche rara eccezione, e non li ho mai più sentiti. Tranne un’eccezione: il comandante dei mortai Harry Cox. Io e lui parlammo di volta in volta a proposito delle nostre esperienze in Italia. Harry è morto nel 2008. Harry era un ufficiale ed era amico di Reuben Horner, il più grande eroe del nostro battaglione, e di Vernonnostra divisione, ad aver ricevuto la Baker, l’unico membro della Medal of Honor”.
Medaglie arrivate poi, dopo tanti, tanti anni. Quasi come una scusa. Ma meglio tardi che mai. Loro i “Black warriors” avevano combattuto da “cittadini di seconda classe”.
“Io personalmente- racconta il reduce nel suo libro che sarà presto tradotto in italiano- non ho incontrato razzismo durante la mia esperienza di combattimento. Nessuno mi ha mai chiamato con la parola N, nessuno mi ha mai insultato in alcun modo. Però negli Stati Uniti d’America durante la Seconda Guerra Mondiale, la discriminazione razziale e la segregazione erano sempre presenti. Mio fratello Norman sperimentò la forte segregazione razziale e discriminazione mentre era nel programma del ROTC all’Università californiana di Berkeley. Raggiunse velocemente la posizione di sergente di plotone e avrebbe dovuto essere promosso al rango di ufficiale, ma al suo capitano ROTC venne detto di informare Norman che “era troppo peso.” Per un’altezza di cinque piedi e 11 inches e 180 pounds di peso, l’eccezione era ridicola. Lo stesso capitano mi disse in seguito cosa era successo e mi disse che era una vergogna. A Camp Van Dorn a Centreville, Mississipi, Norman divenne sergente di plotone nei Quartermasters Corp (Corpo Furieri) e venne richiesto dalla Scuola Candidati Ufficiali. Il comandante del campo, un sudista, lo chiamò e senza averne diritto gli disse: “nessun negro (del suo centro) andrà mai alla Scuola Candidati Ufficiali.”
L’esercito a stelle e strisce relegò la maggior parte degli Afroamericani in unità di servizio e supporto delle forze di combattimento, ma non avrebbero mai voluto piazzarli in combattimenti diretti. Quelli della 92° Divisione, però, furono una delle poche eccezioni. Combatterono contro i nazisti e i fascisti con onore, faccia a faccia nelle aspre montagne italiane. Subirono centinaia di vittime. Nonostante questo il sentimento dell’America, nei confronti dei soldati e dei cittadini afroamericani, non cambiò. “Quando tornammo, ritrovammo la stessa segregazione e discriminazione che esisteva fin dalla Guerra Civile. Non era cambiato niente”.
“Non ci abbiamo guadagnato un cazzo!” gli disse un suo amico, senza mezzi termini. Tanti non riuscirono a trovare lavoro. Poi piano piano tutto cominciò a cambiare.
“In retrospettiva – dice Houston- sono sbalordito per quello che abbiamo compiuto noi uomini della 92° Divisione. Combattevamo per sconfiggere la Germania Nazista, combattevamo per liberare gli italiani, che erano le vere vittime della guerra in Italia. Abbiamo conquistato i cuori e le menti di coloro che abbiamo nutrito. Lo si poteva vedere dai loro occhi e dai loro gesti. Lo si poteva percepire nelle loro voci e nei loro cuori, quando prendevamo città dopo città, paese dopo paese. Ci amavano e ce lo dimostravano con abbracci, baci e vino. Il colore della nostra pelle non era minimamente un problema, e non erano critici.
Nel 1978, io e Philippa visitammo l’Italia per la prima volta dalla fine della Guerra. Affittammo una macchina a Parigi e guidammo fino in Italia. Naturalmente alloggiammo a Viareggio, dato che era stato il quartier generale della 92° Divisione. Camminando per il lungomare, punteggiato di negozi, arrivammo allo studio di un artista. Philippa, anche lei un’artista, disse: “Entriamo.” L’artista era nell’interno; mentre ci guardavamo intorno, gli dissi in italiano: “Ero qui nel 1944 e 1945.” Lui, un italiano grosso dall’aspetto burbero mi disse, “Tu Buffalo.” Io risposi, “Si.” Cominciò ad abbracciarmi e baciarmi con la grande commozione comune agli italiani. Aprì il suo portafogli e tirò fuori un vecchio documento che lo identificava come partigiano. Il suo nome era Bruno Tintori. Mi descrisse di come aveva aiutato a trasportare le munizioni sulle montagne. Ci portò in un bar accanto e ci presentò ai suoi amici, e camminammo e bevemmo grappa per il resto del pomeriggio. Ora Bruno Tintori è morto, ma seppi in seguito che era diventato uno dei più famosi artisti contemporanei italiani.
L’espressione di gratitudine di Bruno Tintori per quello che i soldati della Buffalo avevano fatto in Italia, combattendo nell’aspro Appennino Tosco Emiliano, e liberando gli Italiani dal giogo del Fascismo e del Nazismo, sarà sempre ricordata. Per gli Italiani noi eravamo di prima classe. Per gli italiani noi eravamo degli eroi”.
A wonderfully written, thorough and moving article. Houston is a man of great dignity, and Nazarino has captured him — and his remarkable life — perfectly.